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Questo articolo è stato pubblicato il 01 settembre 2013 alle ore 15:52.

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(Afp)(Afp)

NEW YORK – Obama l'amletico, l'indeciso, a sorpresa ha fatto un passo indietro: per l'attacco alla Siria si attenderà almeno fino al 9 di settembre quando il Congresso ritornerà in sessione a Washington. C'è sorpresa – e c'è il passo indietro - perché ogni messaggio che abbiamo avuto dall'amministrazione noi giornalisti accreditati alla Casa Bianca era inequivocabile: abbiamo fretta.

Che si trattasse del segretario di Stato John Kerry o dei briefing collettivi in conference calls convocate con prevviso di un'ora, o di indiscrezioni raccolte da esperti che lavorano con lo staff per la Sicurezza Nazionale, l'accento era sempre sull'urgenza, sulla necessità di agire rapidamente, di chiudere la partita dell'attacco alla Siria in un paio di giorni, prima del G-20 di San Pietroburgo che si terrà il prossimo 5 e 6 di settembre sotto la presidenza di Vladimir Putin. L'idea era che Obama si sarebbe presentato davanti al G-20 a cose fatte, mettendo Putin davanti al fatto compiuto, a quel punto l'attacco sarebbe sembrato già vecchio, superato, con la credibilità americana salva.

Sappiamo che nell'ultima settimana ci sono state ore drammatiche, dibattiti interni alla Casa Bianca, dettagliati scenari di guerra al Pentagono discussi nella Situation Room, telefonate con la leadership del Congresso, con molti leader stranieri, il voto contrario del Parlamento inglese che ha stroncato improvvisamente la leadership di David Cameron e isolato ulteriormente Obama. Poi venerdì alle sette di sera Obama convoca il suo staff e annuncia tra la sorpresa – e la costernazine – generale di aver cambiato idea.

Dibatte per due ore e solo dopo chiama il segretario di Stato John Kerry e il segretario al Pentagono Chuck Hagel per informarli che tutto è cambiato, che l'attacco previsto da lì a poche ore non si farà più. Sorprende che né l'uno né l'altro fossero parte del processo interno, tanto che oggi la loro stessa credibilità è in dubbio. La dinamica degli eventi conferma l'insularità di questa Casa Bianca.

Sorprende anche la volatilità di Obama, anzi, di un Presidente americano, sulla decisione più grave che può prendere, un attacco militare. Ma Obama ha fatto una grossa scommessa, contrariamente alla reazione intuitiva, il suo "ritardo" vuole costruire una posizione di forza, non di debolezza. L'America del primo Presidente afroamericano riafferma sul piano morale il suo eccezionalismo, i suoi principi wilsoniani, il suo dovere di far rispettare regole chiave per la convivenza civile nell'era dell'asimmetria. Ha deciso di attaccare ci ha detto Obama sabato, sia nel nome della missione umanitaria che in quello della sicurezza nazionale. Sul piano politico cerca consensi. Su quello militare Obama ha chiarito che tutto è pronto, che si potrebbe colpire oggi o fra un mese e per le forze americane schierate nel Mediterraneo non cambierebbe nulla.

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