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Questo articolo è stato pubblicato il 14 settembre 2013 alle ore 18:28.

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Il business turco sotto il tiro di Erdogan

Il conglomerato turco Koç e il colosso dei media Dogan sono stati presi di mira in Turchia dopo che un avvocato ha depositato in tribunale un'accusa contro il patriarca del gruppo Koç per aver partecipato nel 28 febbraio 1997 al cosidetto "golpe postmoderno" quando i militari costrinsero il governo islamico al potere a dimettersi.
Le azioni del gruppo Koc hanno perso il 4% mentre quelle del gruppo Dogan il 6% alla borsa di Istanbul per poi recuperare a fine giornata. A dare la notizia è stato il quotidiano filo governativo Sabah, che ha aggiunto che anche il gruppo Dogan dovrebbe essere preso di mira a breve. Il quotidiano è solitamente ben informato e con buoni legami con il governo del premier Recep Tayyip Erdogan.

Primo ministro che – in occasione della protesta di Gezi Park aveva parlato di «complotto internazionale dei signori dei tassi» contro la Turchia – e giovedì ha rilasciato una frase sibillina nel corso di un ricevimento con uomini d'affari: «Ambienti finanziari e alcuni media non hanno forse contribuito al golpe del 28 febbraio? Mi chiedo perché non siano stati finora incriminati».

Una velata minaccia verso quei gruppi economici laici e cosmopoliti che Erdogan non sopporta? Forse, ma sicuramente un segnale di burrasca tra governo filo-islamico – percorso da tentazioni autoritarie dopo gli scontri di piazza per Gezi Park e che ha dovuto subire l'onta per l'occasione sfumata dell'Olimpiade a favore di Tokio – e il mondo del business dei conglomerati turchi di vecchia data. Un rapporto tra Akp, il partito di governo, e grandi imprese i cui nomi più noti sono tutti provenienti dall'alta borghesia delle grandi città, dall'educazione laica e di alto livello. Un mondo che si scontra con i piccoli imprenditori usciti dalla classe media delle città di provincia anatoliche, dall'irreprensibile morale musulmana, che alcuni osservatori hanno battezzato "calvinisti islamici", e altri, impressionati dal loro dinamismo, "tigri anatoliche" che invece sostengono in massa Erdogan e il suo partito filo-islamico.

A subire questo nuovo vento di crisi tra le due anime del paese (laici contro islamici conservatori) sono stati due tra i maggiori gruppi della Turchia.
Koç, infatti, è un conglomerato, le cui filiali includono l'unica raffineria della Turchia, joint ventures con Ford, Fiat e Unicredit e produce elettrodomestici venduti anche in Italia con il marchio Beko, società che sponsorizza il campionato italiano di basket. Koç vale il 9% del Pil della Turchia, il 10% dell'export e il 9% delle entrate fiscali del paese della Mezzaluna.

Dogan, invece, è un gruppo editoriale tra i maggiori del paese, bandiera laica sul Bosforo, che ha subìto in passato inchieste fiscali molto sospette al punto che la stessa Unione europea è dovuta intervenire facendo notare che l'entità della multa tributaria inflitta era così elevata da mettere a rischio la stabilità stessa dell'azienda.
Tutto sembra che abbia avuto inizio da una frase di Rahmi Koc, il patriarca ottuagenario del conglomerato, che ad aprile ha scritto un editoriale in una rivista turca "Turkish Policy Quarterly", uscita solo ora, criticando l'affermazione del premier che prevede il passaggio dal 17° al decimo posto tra le maggiori economie del mondo per la Turchia entro il 2023. «La Turchia potrà raggiungere i suoi obiettivi... solo se emerge come una democrazia stabile e matura», ha scritto Koç, evidenziando nel Paese «una eccessiva dipendenza da flussi di capitali esteri, problemi sull'istruzione e la formazione e livelli molto bassi delle donne nella forza lavoro».

Una frase che non è piaciuta agli uomini al governo dell'Akp. Esecutivo che in passato aveva accusato l'Hotel Divan, del gruppo Koc, di aver dato rifugio ai dimostranti di Piazza Taksim in occasione della proteste per Gezi Park. Una storia apparentemente di vecchie ruggini che ha però sullo sfondo la libertà di espressione e il destino della democrazia liberale in Turchia.

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