Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 20 settembre 2013 alle ore 13:36.
L'ultima modifica è del 21 febbraio 2014 alle ore 15:45.

My24
Hassan Rouani (Ap/LaPresse)Hassan Rouani (Ap/LaPresse)

Settembre 2013 si ricorderà forse come il ritorno della diplomazia delle missive sotto forma di editoriali ai giornali, pubblici e ufficiali. Né sottratte da siti di soffiate come Wikileaks, né ottocentesche, burocratiche, vuote. Concausa la minaccia americana di un raid in Siria come punizione dell'attacco chimico contro civili del 21 agosto che ha fatto 1.400 morti - il rapporto Onu non indica esplicitamente il mandante, il principale indiziato rimane il presidente Assad - l'11 settembre scorso, Vladimir Putin scrive agli americani sul New York Times, e ne critica l'eccezionalismo in politica estera.

Due giorni fa arriva indispettita la risposta del senatore John McCain, componente della Commissione esteri del Senato, repubblicano favorevole a massicci aiuti ai ribelli siriani: «Meritate qualcosa di meglio di Putin» scrive sulla Pravda, giornale senza più lo stesso peso di una volta ma sempre simbolo della censura nell'ex Urss.

Ora, alla vigilia del suo viaggio a New York per partecipare all'assemblea Onu, il presidente della Repubblica islamica col nucleare, Hassan Rohani, che con un tweet ha augurato buon anno ebraico «agli ebrei iraniani» e rilasciato 12 prigionieri politici, scrive una lettera aperta dai toni insolitamente morbidi a un grande giornale americano, stavolta il Washington Post: «È finita l'era delle faide di sangue», è il titolo.

Il «pragmatico», «moderato» ma ancora poco conosciuto Rohani, eletto tre mesi fa, non solo afferma che l'11 settembre 2001 è opera di al Qaeda - spazzando via le tesi complottiste che ancora circolano sul web ma anche le parole del predecessore, Mohammed Ahmadinejad («11/9 fu un complotto» disse all'Onu solo nel 2010, qui il video) - ma dice che dopo più di dieci anni dall'attentato che ha fatto 3mila vittime sul suolo americano, quei gruppi terroristici continuano a creare scompiglio nel mondo. A pensar male, si potrebbe notare che Rohani è leader del Paese dell'Islam sciita, alleato dell'alawita (setta sciiita) Assad la cui attuale tesi davanti alla comunità internazionale è: la Siria è martoriata da al Qaeda, non da me.

A pensar bene si possono mettere in evidenza altri passaggi dell'intervento: «il mondo è cambiato»; «la politica internazionale non è più un gioco a somma zero» ma «un'arena multidimensionale» «dove spesso coesistono cooperazione e competizione». «Gioco a somma zero» scrive Rohani è «la mentalità della Guerra Fredda, con cui si perde tutti». Parafrasando il consunto motto cinese «crisi da tramutare in opportunità», di cui s'è abusato negli ultimi cinque anni di bancarotte di Stati e fallimenti di banche, Rohani dice che i leader del mondo «devono tramutare le minacce in opportunità». Scrive che le troppe sfide alla comunità internazionale - terrorismo, estremismo, interferenze militari dall'estero, traffico di droga, cybercrime e, più interessante, «gli sconfinamenti culturali» - hanno enfatizzato l'uso dell'hard power e della forza bruta. Vista la premessa, contro intuitivo è, continua Rohani, che se prometto di «interagire col mondo in modo costruttivo» non potrò perseguire un interesse senza considerare quello degli altri. Un mondo iperc0nnesso per necessità se non per convinzione. «Dobbiamo lavorare insieme per superare le insane rivalità e le ingerenze che portano alla violenza. Dobbiamo prestare attenzione all'identità come tema chiave delle tensioni all'interno ed oltre il Medio Oriente».

Nel capitolo della centralità dell'identità di una parte di mondo che comprende «Iraq, Afghanistan e Siria», Rohani fa rientrare «il pacifico programma nucleare» di Teheran che serve «sia a diversificare le risorse energetiche sia a fare in modo che gli iraniani si vedano come nazione», «soddisfa la nostra domanda di dignità, di rispetto e quindi la nostra ricerca di un posto del mondo».

«Senza capire l'importanza dell'identità, molti problemi non si risolveranno» dice Rohani. Una frase al limite della zona grigia. Rohani critica poi l'uniteralismo (è sottonteso degli americani) che impedisce «approcci costruttivi». Come Putin condanna l'eccezionalismo di cui ha parlato Obama solo a inizio mese, il leader iraniano manda un messaggio al presidente Obama: da solo non puoi fare niente, vedi Siria, «gioiello di civiltà distrutto anche dall'attacco chimico che condanniamo»; l'Iraq, scosso da violenze quotidiane a dieci anni dall'invasione delle truppe Usa; l'Afghanistan, sinonimo di «spargimento di sangue».

Il presidente iraniano vorrebbe vedere «più coraggio» nelle relazioni internazionali, sia si tratti delle diffidenze verso il nucleare iraniano sia della Siria; dice che «bisogna volare alto»: non basta più il tanto peggio, tanto meglio. È questa «l'essenza del suo approccio a un'interazione costruttiva».

Non tutti si fidano di Rohani, visto come diretta emanazione di Ali Khamenei, vero potere in Iran a cui non a caso la rivista Foreign Affairs dedica un lungo saggio nel numero di settembre/ottobre. Intanto però si registra questo momento in cui la diplomazia non è fatta di balletti, dichiarazioni a volte pretestuose, spesso comprensibili solo ai navigati addetti ai lavori che si traducono in una rappresentazione teatrale e non intuitiva di cosa accade - nelle versioni meno riuscite in una sceneggiata. Senza volerlo i leader del mondo sembrano seguire il vecchio consiglio del produttore cinematografico, Samuel Goldwin: «Se vuoi mandare un messaggio spedisci un telegramma, non fare un film».

Commenta la notizia

Shopping24

Dai nostri archivi