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Questo articolo è stato pubblicato il 01 ottobre 2013 alle ore 08:11.

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ROMA - «Delirante e diffamatoria». La nota dell'ufficio stampa del Colle arriva poco dopo la notizia di quella telefonata in cui Silvio Berlusconi trascina il capo dello Stato in una sua vicenda giudiziaria come se ne fosse parte in causa o addirittura l'artefice. Non c'è bisogno di meditare la risposta perché al Quirinale la vicenda viene derubricata come «invenzione». Non appartengono alla categoria dei fatti né a quella dei fatti politici né tantomeno istituzionali gli aggettivi «deliranti e diffamatori» scelti dal Colle. È come se, ormai, si avesse a che fare con chi inquina i pozzi, chi trasforma la realtà in una sceneggiatura fatta a uso e consumo delle proprie auto-assoluzioni. Delirante è anche chi ha perso il controllo di sè e del suo ruolo.

«Quel che sarebbe stato riferito al senatore Berlusconi circa le vicende della sentenza sul Lodo Mondadori è semplicemente un'altra delirante invenzione volgarmente diffamatoria nei confronti del Capo dello Stato», si legge nel testo integrale della nota. Al Colle nessuno intende aggiungere una parola in più a queste righe scarne ma sferzanti. Quelle righe raccontano tutto il gelo di un capo dello Stato che si trova, suo malgrado, a dover replicare a «invenzioni deliranti e diffamatorie». Gli aggettivi sono scelti in modo da renderli perfettamente calzanti al racconto di chi – Berlusconi – cerca l'ennesimo nemico, l'ennesimo scontro a due pur di salvare – a questo punto – solo una reputazione visto che le sentenze che lo riguardano raccontano altre verità processuali e impongono scadenze e passaggi precisi.
Forse al Colle non ci si attendeva questa escalation di volgarità e diffamazione. Certo si temeva l'esplosione di una contrapposizione politica, come sta accadendo, in prossimità di scadenze cruciali per il capo del centro-destra. E infatti più si arriva in prossimità del voto in Senato sulla decadenza, più si avvicina il giorno in cui il Cavaliere deve decidere se andare agli arresti domiciliari o affidarsi ai servizi sociali, più corrono i giorni verso la sentenza della Corte d'Appello che deve ricalcolare gli anni d'interdizione, più il Cavaliere alza il tiro.

Un tiro che ieri, come si è ascoltato da quella telefonata, mira in alto. E tenta di trasformare un suo destino processuale in uno scontro a due, in cui il nemico sarebbe il capo dello Stato. Uno sfregio all'istituzione più che alla persona di Giorgio Napolitano. È questo che preoccupa il Colle in queste ore. Come accadde già sulle intercettazioni nella vicenda della trattativa Stato-mafia, quello che Giorgio Napolitano chiarì, fu che il suo ricorso alla Consulta puntava alla definizione limpida del ruolo e delle prerogative del capo dello Stato. Non della sua persona ma di un ruolo che ora incarna. Non della sua reputazione personale ma della funzione del garante della Costituzione. E questo ruolo continuerà a difendere.

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