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Questo articolo è stato pubblicato il 25 ottobre 2013 alle ore 09:04.
L'ultima modifica è del 25 ottobre 2013 alle ore 10:07.

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Mineo (Catania) - Ti aspetti un luogo stravolto dalla furia delle proteste o banalmente da atti di vandalismo bieco. E invece qui, nella piana di Catania che volge verso Gela, in quello che tutti chiamano basso calatino, il Villaggio degli aranci che fu residenza di lusso per i militari americani sembra essere un luogo di quiete e di riposo. Certo ci sono i militari alla porta e il villaggio, come in passato, è completamente chiuso da reti metalliche. Certo i vialoni sono costantemente pattugliati da polizia e carabinieri ma è anche vero che il viale principale è affollato di negoziati di abbigliamento e non mancano i bazar, anche in altre aree del villaggio.

Nulla fa pensare che qui vivono circa quattromila migranti richiedenti asilo di cui un migliaio somali: gente che ha attraversato, in gran parte, il deserto sahariano e che dalla Libia è arrivata su un barcone in Italia, a Lampedusa spesso ma anche no, visto che ormai la costa sudorientale della Sicilia è diventata una delle mete privilegiate per gli sbarchi, ed è finita qui. Questo è il centro di accoglienza richiedenti asilo, il Cara, di Mineo.

C'è una Babele atipica in questo villaggio gestito da un'Associazione temporanea di imprese di cui è capofila il Consorzio Sol.Calatino e di cui sono entrati a far parte oltre alla Croce Rossa anche il gruppo Pizzarotti, proprietario del villaggio che consta di 400 unità immobiliari che possono ospitare comodamente fino a 12 persone ciascuna. A voler cercare l'atmosfera da lager non la si trova e dai racconti di chi qui dentro lavora e vive si ricava un'altra impressione, diversa anzi addirittura opposta. La Babele atipica è fatta da migranti di 48 nazionalità diverse e 300 etnie che convivono pacificamente, da cittadini di religioni diverse e spesso contrapposte in patria che qui hanno imparato a convivere e che hanno in comune tutti un unico nemico: la burocrazia anzi per meglio dire la lentezza con cui la commissione territoriale per i richiedenti asilo di Siracusa ascolta e esamina le pratiche. Lavora, dicono, con una media di 8 persone al giorno e secondo alcuni calcoli non basterebbe un anno (domeniche comprese) per smaltire l'arretrato che aumenta sempre di più considerato il numero di sbarchi.

Qui c'è gente che aspetta da un anno, alcuni da otto mesi qualche altro da un tempo che sembra infinito e ogni giorno che loro trascorrono in questo centro costa ai contribuenti 35 euro.

Va detto che la tensione non si vede ma c'è, nonostante l'impegno dei 300 addetti guidati dal direttore del Cara Sebastiano Maccarrone, perché la tensione sta nelle storie di ogni singolo che qui dentro vive, nelle angosce che si porta dietro: si prenda la storia del migrante che al momento dell'imbarco in Libia è stato diviso dalla moglie incinta che ora è a Malta e ha pure partorito. E non è l'unica storia. Inutile negarlo c'è anche chi alla disperazione aggiunge dose di rabbia che sfociano nella violenza: c'è la parte più agitata dei migranti, che arriva da esperienze in patria a volte poco edificanti. Sono loro, secondo i testimoni, gli artefici di proteste anche violente. È accaduto l'altra sera: circa duecento di migranti sobillati da un gruppo di una sessantina tra i circa quattromila che vivono a Mineo ha preso d'assalto carabinieri e polizia.

Ancora, dicono i testimoni, vi sono i segni della violenza: vetri rotti, un'ambulanza con il parabrezza fracassato. Ma sono gli stessi migranti a insistere: è l'eccezione e non la regola. Sono stati i migranti a voler isolare i violenti: hanno addirittura minacciato di non farli mangiare e alla fine per evitare tensione hanno ceduto. Non v'è dubbio che uno dei temi più importanti è quello della sicurezza e di questo si parlerà martedì con il sottosegretario alla Difesa Gioacchino Amato che ha annunciato una visita al Cara, anche perché va affrontato il tema dei rapporti con i cittadini e con il territorio, soprattutto con i contadini della zona che mal sopportano spesso di essere defraudati dai migranti. E non c'è solo questo perché se è vero che l'area di Mineo gode dei vantaggi economici derivanti dalla presenza del centro che garantisce, spiega il presidente del Consorzio Sol. Calatino Paolo Ragusa il quale è netto: «Noi la sfida della convivenza l'abbiamo vinta ora è lo Stato che deve fare la sua parte». Il Centro di accoglienza di Mineo, in effetti, si è dato parecchio da fare a partire dall'inserimento dei bambini negli asili nido (ce ne sono circa 80) e poi con la promozione di attività di formazione con possibile inserimento una azienda, con attività sportive (basket e calcio), con musica e attività teatrali, un giornale. «Sfido chiunque a tenere impegnate queste persone per un anno - dice il direttore - noi ci siamo riusciti. Ma più di un anno francamente è difficile». È il tempo l'altro nemico dei migranti, ne parlano i rappresentanti, ogni etnia o area linguistica ne ha uno: vogliono andare via presto, via dall'Italia magari in Germania anche se negli ultimi tempi chi è arrivato da quelle parti non ha trovato lavoro e molti gruppi stanno tornando indietro, in Sicilia.

Cosa deve fare lo Stato è presto detto. Intanto creare una commissione territoriale straordinaria e poi, dice il sindaco di Mineo Anna Aloisi, che è anche presiedente del Consorzio dei comuni «Calatino Terra di accoglienza» inserire Mineo e l'intero calatino sud Simeto tra le zone franche urbane così come è stato previsto per Lampedusa e Linosa. Anche qui, come a Lampedusa, quello che pesa di più è il senso di abbandono nonostante tutto, nonostante per esempio in questa zona sia stata raccolta la disponibilità di altri 200 posti nell'ambito degli Sprar, il sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati. Perché qui, nel residence degli Aranci che sembra più un accampamento militare, si è imposto il senso di umanità e forse anche per l'esperienza portata dal direttore che prima di venire qui è stato direttore del centro di Lampedusa. È un riferimento dentro il centro ma lo è anche fuori. Alle 16,15 arriva sul suo telefonino una chiamata: è una richiesta di aiuto di migranti su un barcone diretto a Lampedusa. Lui chiama la capitaneria di porto di Catania, poi quella di Roma: «Mi chiamano spesso - dice il direttore - ormai il mio numero si è diffuso e mi chiamano per chiedere aiuto e soccorsi». Ogni volta lo sguardo di Maccarrone si fa sempre più amaro perché vince forse la convinzione che gli arrivi siano ineluttabili e saranno sempre più massicci e continui, nonostante il mare e nonostante tutto. Pronti ad accogliere chi ce la fa e non dimenticando chi invece non ce l'ha fatta: «Sappiamo bene - dice Maccarrone - che su dieci barconi che partono solo sette arrivano. Gli altri restano in mezzo al mare».

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