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Questo articolo è stato pubblicato il 04 novembre 2013 alle ore 16:02.
L'ultima modifica è del 04 novembre 2013 alle ore 20:16.

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Sorpresa. Anche le aziende italiane si arrendono all'utilizzo dei social media nell'orario di lavoro. I lucchetti imposti su Facebook, Youtube e Twitter saltano insieme all'austerity dettata negli ultimi anni dagli uffici del personale. Secondo i dati di un'indagine realizzata da Easynet Global Services e Ipanema Technologies, rilanciata dal sito della Cgil rassegna.it, le aziende stanno bloccando un minor numero di applicazioni social media.

Nel 2013, sia negli Usa che in Europa, il numero di responsabili IT che hanno vietato l'utilizzo di Facebook all'interno delle loro aziende è diminuito del 15% rispetto al 2012 (del 26% in Italia), mentre il blocco di YouTube è diminuito del 17% (11% nel nostro Paese). La variazione percentuale acquista un significato da non sottovalutare se si pensa che in Italia il blocco all'utilizzo di Facebook (il più temuto tra i social) riguardava quasi otto aziende su dieci, così come Youtube e Twitter erano bandite nel 50% delle imprese.

Il contrordine è evidente, e dichiarato dallo stesso vice presidente di Ipanema Technologies, Thierry Grenot. «I social media offrono grandi vantaggi per le imprese per questo i responsabili IT stanno alleggerendo i controlli. La sfida ora è quella di garantire che il traffico dei social media sia gestito in modo efficace e senza impattare sulle prestazioni delle applicazioni business-critical». Ed è lo stesso Grenot a spiegare eventuali controindicazioni: «Un'esplosione di dipendenti che accedono a contenuti video di YouTube o che condividono foto attraverso Facebook può provocare un traffico sulle reti aziendali più intenso di quanto queste possano supportare e bisogna prendere in considerazione la necessità di dare priorità al traffico delle applicazioni davvero indispensabili per la produttività degli utenti e dell'azienda».

Su base globale, riporta la ricerca, anche gli Stati Uniti sono rigidi custodi del blocco dei social media. Il 69% delle imprese, infatti hanno limitato l'accesso del personale a Facebook e il 65% a YouTube. Sempre rispetto alla media dei paesi presi in esame, l'unica eccezione è rappresentata da LinkedIn (blocco nel 20% dei casi).

«Qualsiasi applicazione in grado di migliorare la produttività deve essere adeguatamente supportata dal dipartimento IT. E i social media non fanno eccezione», commenta Christophe Verdenne, Managing Director di Easynet per il Sud Europa. «È ingenuo pensare che i dipendenti siano più produttivi una volta bloccate queste applicazioni, che sono parte della vita di tutti nel 2013 – aggiunge Lisa Myers, amministratore delegato di Verve Search -. Inoltre è irrealistico pensare che, impedendo l'accesso ai social media dalle reti aziendali, i dipendenti non vi accedano comunque, tanto più che il 60% degli utenti di telefonia mobile nel Regno Unito (62% in Italia – dati Nielsen) possiede uno smartphone con cui accedere ai social ogni volta che lo desidera. Non si tratta di sapere se si può frenare o no quello che già sta avvenendo, l'unica domanda è: vuoi esserne parte o essere un minuscolo sassolino che sta per essere travolto da una marea?».

La questione sembra proprio essere questa, dunque. I social network rappresentano un nemico terribile o un utile alleato per il datore di lavoro contemporaneo del mondo globalizzato? La stessa domanda è il punto di partenza del ragionamento condotto da Andrea Gatti Casati e Giada Salta, ricercatori Adapt, l'Associazione per gli studi internazionali e comparati sul diritto del lavoro e sulle relazioni industriali. Perfino uno dei top 10 studi legali al mondo Baker&McKenzie – scrivono i ricercatori – ha deciso di fare un approfondimento e non chiudere gli occhi sull'ipotetico impatto che i social possono avere su datore e lavoratori. E in Italia la situazione è più complicata che altrove. L'articolo 8 dello Statuto dei lavoratori «pone il divieto di compiere alcuna indagine su dati sensibili che riguardino la persona del lavoratore, non direttamente le sue competenze e la sua professionalità (ad esempio, l'orientamento religioso, sessuale e politico)» ma nonostante questo nel nostro Paese ancora manca una normativa specifica sull'argomento. D'altro canto nell ‘ambito del rapporto di lavoro il datore può disciplinare i social media che non vengono ritenuti necessari per la prestazione lavorativa. Ma da qualche tempo – rileva l'indagine – «in molte raltà si sta facendo largo la consapevolezza delle potenzialità di questi strumenti di comunicazione, anche nell'ottica di visibilità e di marketing dell'azienda». Insomma un'inversione di rotta che ha portato le aziende ad abbracciare sempre di più dei codici di condotta per evitare il generico divieto. Un passo avanti rispetto alla censura, certo. Anche se la ricerca auspica che accanto alle diverse policy aziendali, l'Italia dovrebbe prendere coscienza di questa tendenza e aggiornare il proprio apparato normativo, come sta accadendo negli Stati più lungimiranti.

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