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Questo articolo è stato pubblicato il 05 novembre 2013 alle ore 06:48.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 10:39.

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BORGO PANIGALE - Vieni a Borgo Panigale. E vedi la più fortunata delle due opzioni secche riservate a un Paese che è ormai al bivio fra una trasformazione dolorosa, ma irriducibilmente vitale, e un declino prossimo a precipitare nel tonfo finale. Il futuro del sistema industriale italiano – se le cose andranno bene – in una Europa manifatturiera plasmata sul primato della Germania.

Noi e i tedeschi. La Ducati. L'Audi. La "loro" forza industriale, costituita dalla dimensione e dalla capacità organizzativa, dalla pianificazione e da una miscela di produzione e finanza. La "nostra" – più minuta – capacità di creare marchi con una componente tecnologica – ma soprattutto estetica ed emotiva – rilevante. E la crescente integrazione fra le due realtà.

A poco più di un anno dalla cessione del 100% di Ducati da parte del fondo Investindustrial della famiglia Bonomi al gruppo Audi, che ha adoperato come veicolo la controllata italiana Lamborghini, il caso Ducati assume una valenza paradigmatica. «Il modello di sviluppo promosso da Audi – dice l'amministratore delegato Claudio Domenicali – è basato sull'accompagnamento del marchio. La strategia del gruppo persegue non una integrazione radicale, ma una valorizzazione dei singoli brand». Una filosofia indispensabile per non snaturare l'identità industriale di una impresa che conta su 1.350 addetti e che, con 44mila motociclette vendute, ha fatturato l'anno scorso 560 milioni di euro. Una realtà relativamente piccola rispetto al perimetro di un gruppo che è composto da oltre 67mila addetti e che ha 48,7 miliardi di ricavi. In una fisiologia così delicata, svolge una funzione essenziale la governance societaria.

Domenicali è membro del consiglio di amministrazione di Lamborghini, il braccio operativo e strategico in Italia. E, del board di Ducati Motor Holding (di cui fa parte anche il numero uno di tutto il gruppo Volkswagen Ferdinand Piëch), il presidente è Rupert Stadler, amministratore delegato di Audi. Dunque, non ci sono schermi operativi né passaggi intermedi: il capoazienda della controllata riferisce direttamente a quello della controllante. Né esistono, per Ducati, dipendenze dai dipartimenti automotive di Ingolstadt.

Visiti la fabbrica di Borgo Panigale e constati quanto – pur all'interno di un grande gruppo tedesco – sia rimasto immutato lo stile italiano di fare industria: quella miscela di tecnologia automatizzata e camici bianchi, di dita sporche di grasso e di calcoli da ingegneri che, alla fine, restituisce all'esattezza della produzione il senso di plasticità organizzativa e di unicità del manufatto che è proprio della dimensione artigianale. La lean production inventata da Toyota e diffusa in Italia da Porsche Consulting – con la rimodulazione continua del ciclo produttivo – qui risulta coerente con il profilo di una impresa in cui il fordismo si trasfonde nella manualità più tattile e la tecnologia dell'immateriale nell'emozione dell'estetica. Una bottega hi-tech che sembra uscita da una trasposizione modernista dei saggi sui "Maestri della pittura del Seicento emiliano" dello storico dell'arte Francesco Arcangeli, un intellettuale bolognese dalla vena insieme popolare e elitaria, un connubio che in fondo è la stessa cifra che si ritrova negli scritti pop di Edmondo Berselli, nei fumetti divertenti e disperati di Andrea Pazienza e – perché no – nelle Ducati.

Il montaggio delle moto. Il montaggio dei motori. L'officina per i pezzi più sofisticati: l'albero a motore, l'albero a camme, il sistema desmodromico. E, in uno spazio che diventa unico, le sale prove. Quindi, a fianco, il reparto corse, dove – in camere asettiche – i robot conducono test sui nuovi componenti. Un traino fondamentale, ma da gestire con equilibrio rispetto all'intero organismo aziendale della Ducati. Cento specialisti impegnati a lavorare sulla innovazione che si aggiungono ai duecento tecnici della R&S per le moto di serie. È, questa, una parte essenziale del progetto industriale Ducati: riuscire a mettere a fattore comune l'innovazione fra le moto per le corse e le moto di serie. Un processo non dissimile da quanto capita nella sfera, altrettanto complessa, della corporate image e della corporate identity: trovare un equilibrio fra l'appassionato per cui il brand è una specie di seconda pelle e un nuovo tipo di cliente meno duro e puro, affascinato da un marchio che – appunto – ha arricchito il vocabolario italiano di un aggettivo sostantivato ("il ducatista"). Il primo luogo della fabbrica in cui si prova a perseguire questo complicato equilibrio è il Ducati Design Center.

«Dal 1995 – ricorda il suo direttore Andrea Ferraresi – nella progettazione è aumentato in maniera lineare l'utilizzo del 3D. Anche se, per noi, resta fondamentale il rapporto fisico con le moto che stiamo ideando». E, mentre Ferraresi lo spiega, un artigiano della fabbrica, chinato a terra, ripassa a mano il particolare di un prototipo in pasta di plastica, il così detto clay. In questo caso il marchio è così solido e persuasivo da non richiedere interventi di star del design industriale. Bastano persone appassionate e competenti, all'interno di un corpo imprenditoriale efficiente. Come è capitato a un junior designer francese, Julien Clement, il cui progetto di stage ha fornito la prima bozza per una moto in uscita nei prossimi anni: «La realizzazione di un desiderio profondo», dice Julien. Un processo, dunque, internalizzato, che evita quei conflitti fra ingegneria e design che, invece, c'erano una decina d'anni fa, quando quest'ultimo era fuori dal perimetro aziendale. Una armonia fra le parti – pur nella complessità del quotidiano – in cui ha una funzione essenziale il controllo di gestione, una leva completamente in mano a Borgo Panigale. Dunque, il cuore Ducati – anche sotto l'egida tedesca – resta italiano. Come buona parte della catena di fornitura, in sostanza invariata rispetto a prima dell'acquisizione tedesca: il 65% degli acquisti in Italia (un quarto del totale in Emilia Romagna), l'8% nel resto dell'Europa, l'11% in Giappone e il rimanente nel Far East. I vantaggi dell'appartenenza a un grande gruppo tedesco, peraltro, facilitano il raggiungimento di un obiettivo di efficienza fissato – fra Ingolstadt e Borgo Panigale – in un Ebit per Ducati superiore al 10% annuo. Oggi questo indicatore è intorno all'11 per cento. Un primo esempio riguarda il tema della qualità e della sicurezza: Audi dispone di piste estreme – in Arizona e nel Circolo Polare Artico – in cui le moto Ducati potranno essere collaudate. Un'altra questione è finanziaria: è vero che, oggi, Ducati è cash positive e, dunque, ha risorse da mettere al servizio dello sviluppo (250 milioni di euro di investimenti nei prossimi cinque anni); ma è altrettanto vero che, essendo la tesoreria in comune con Ingolstadt, ogni finanziamento può avvenire a tassi tedeschi. «E, così – chiosa Domenicali – non scontiamo i famosi quattro-cinque punti di spread reale che affossano la competitività italiana rispetto a quella tedesca».

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