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Questo articolo è stato pubblicato il 10 novembre 2013 alle ore 08:48.

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«Nella 121a Olimpiade (cioè dal 296 al 293 a. C.) l'arte finì, e poi rivisse nella 156a Olimpiade (cioè dal 156 al 153 a.C.)». Questo laconico passo di Plinio (Naturalis Historia, XXXIV, 52) è certo, a causa della parola-chiave revixit (rivisse), uno dei testi più influenti di tutta la tradizione storico-artistica occidentale. Fra tutti gli echi (e i fraintendimenti) di questo passo, nessuno è tanto importante quanto quelli che troviamo nelle pagine di Lorenzo Ghiberti. Nel primo Commentario, la trattazione del l'arte antica ne include anzi una traduzione letterale: «E di poi mancò l'arte: e da capo rinacque» (si noti che revixit è reso non con "rivisse", ma con "rinacque"). È questo il modello narrativo che Ghiberti applica quando viene a parlare della transizione dall'antichità a quello che noi chiamiamo Medio Evo: «Al tempo di Costantino imperadore et di Silvestro papa sormontò sù la fede christiana. Ebbe la ydolatria grandissima persecutione in modo tale, tutte le statue et le picture furon disfatte et lacerate di tanta nobiltà et anticha e perfetta dignità, et così si consumaron colle statue et pitture et volumi et comentarij et liniamenti et regole davano amaestramento a tanta ed egregia et gentile arte. (...) In questo tempo ordinorono grandissima pena a chi facesse alcuna statua o alcuna pittura, et così finì l'arte statuaria et la pictura et ogni doctrina che in essa fosse fatta. Finita che fu l'arte, stettero e' templi bianchi circa d'anni 600».
Più tardi, dopo i "debilissimi" inizi greci (cioè bizantini), «Giotto e i suoi discepoli furono docti al pari delli antichi Greci. (...) Giotto arrecò l'arte nuova, lasciò la rozzezza dei Greci, sormontò eccellentissimamente. (...) Fu peritissimo in tutta l'arte, fu inventore et trovatore di tanta doctrina, la quale era stata sepolta circa d'anni 600».
Riconosciamo facilmente le stesse coordinate nel Proemio delle Vite di Vasari, dove si parla della «perfezzione e rovina e restaurazione e per dir meglio rinascita» delle arti, comparandone la parabola a quella della vita umana. È infatti da sapere, scrive Vasari, come l'arte «da piccol principio si conducesse alla somma altezza e come da grado sí nobile precipitasse in ruina estrema, e, per conseguente, la natura di questa arte, simile a quella dell'altre che, come i corpi umani, hanno il nascere, il crescere, lo invecchiare e il morire». Si potrà così «più facilmente conoscere il progresso della sua rinascita, e di quella stessa perfezzione, dove ella è risalita ne' tempi nostri». La vita dell'arte è dunque simile alla vita dell'uomo, perché conosce nascita, crescita, decadenza e morte; ma anche ne è dissimile, perché è passibile di rinascita.
Quell'idea di nuovo cominciamento aveva radici profonde nella cultura religiosa e politica medievale. Spesso la spiritualità cristiana caratterizzava il necessario rinnovamento interiore del fedele (o della Chiesa) come un nuovo cominciamento, una recapitulatio che imitasse quella del Cristo "nuovo Adamo". Il rimando latente alla spiritualità cristiana, attraverso la resurrezione del Cristo o con metafore vegetali che alludono al ritmo delle stagioni, contribuisce a spiegare la potenza della metafora della rinascita e a illuminare la genealogia culturale del "Rinascimento", ma non ne esaurisce lo spessore. Questa diffusa ideologia "vitalistica" della rigenerazione aveva infatti un'altra implicazione: comportava una concezione "biologica" della storia culturale esemplata sulla vita umana (per Vasari, lo abbiamo visto, la storia dell'arte procede «come i corpi umani» attraverso «il nascere, il crescere, lo invecchiare e il morire»). Fra decadenza (o morte) e rinascita non vi è solo simmetria, vi è una necessaria complementarietà, anzi una sorta di cadenza ritmica: il Rinascimento è una reazione successiva alla decadenza, ma per converso la decadenza presuppone una fioritura anteriore, quella dell'Antichità.
Questa concezione biologica (o parabolica) della storia dell'arte, e più in generale della storia culturale, è il "sotto-testo" ricorrente dell'idea di progresso che informa tanta parte della storia dell'arte europea. Fra i testi fondativi, si deve qui richiamare almeno Winckelmann, che nella sua influentissima Geschichte der Kunst des Alterthums (1764) mise a punto una griglia interpretativa fondata sulla "vita" delle arti, secondo uno schema parabolico, di tipo biologico-evoluzionistico, analogo allo sviluppo della vita umana (infanzia, adolescenza, maturità, vecchiaia e morte). Winckelmann trovava questo paradigma evolutivo già in Vasari, ma si fondava specialmente sull'autorità del Thesaurus temporum di Giuseppe Scaligero (1606), con la sua ricca miniera di fonti antiche, per esempio Quintiliano e Cicerone, che usavano l'identico schema anche per la retorica e la letteratura. Lo stesso paradigma informa però anche le pagine di Plinio su scultura e pittura e quelle di Vitruvio sull'architettura: due testi che sono frutti estremi della trattatistica sulle arti figurative che fiorì in età ellenistica ed è oggi quasi interamente perduta.
Come altre storie "specializzate", anche questa "storia dell'arte" era sorta per impulso della scuola di Aristotele. In un passo famosissimo della Poetica, egli descrive lo sviluppo della tragedia: nata come improvvisazione, essa cresce ad opera dei poeti, subisce numerosi mutamenti, e infine raggiunge la sua forma compiuta, e lo sviluppo s'arresta. Il modello della narrazione storica, che da Erodoto in poi era usato per la storia politica, veniva così applicato ad ambiti speciali, e in particolare alla storia delle technai, e usato come ossatura della narrazione. Si scrissero così storie della geometria, della medicina, della retorica, della musica; ma anche della pittura e della scultura.

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