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Questo articolo è stato pubblicato il 10 novembre 2013 alle ore 08:30.

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L'attualità dell'inattualità, il riapparire sotto altre forme di ciò che ritenevamo superato è una cifra del nuovo secolo. Il tutto accentuato dalla crisi che costringe «a camminare con lo sguardo rivolto all'indietro» per capire dove abbiamo sbagliato nel passato se vogliamo arrivare al futuro. Torcicollo che ci prende sia raccontando le forme dei lavori che nell'interrogarci sul fare impresa. Con questo spirito del tempo mi spiego l'attualità televisiva, e non solo, del pensiero e dell'agire di Adriano Olivetti che ci interroga su ciò che resta e cosa ne sarà di tre parole chiave: capitalismo-conflitto-comunità.
Sull'asse Torino Ivrea, negli anni 50 tra Fiat e Olivetti, tra la concezione vallettiana e la visione olivettiana del fordismo si svolse un titanico conflitto. Tra due concezioni della fabbrica: da una parte il fordismo hard di Valletta: concentrazione, verticalizzazione, comando e company town; dall'altra il fordismo dolce di Olivetti: dialogo, cogestione, orizzontalità, territorio. Le due città ne sono la cartina di tornasole. Ivrea non divenne mai company town. Nella visione di Adriano il rapporto dolce tra fabbrica e territorio è anche motore di creazione di reti di trasporto dai comuni delle valli all'impresa e reti socio culturali di biblioteche nei paesi. Differenze stridenti anche nelle forme dei lavori e di produzione delle merci. A Torino il fordismo hard del «comprino la macchina del colore che vogliono, purché nera», basato sul ferreo controllo della catena del valore, la catena di montaggio che metteva al lavoro l'operaio massa. A Ivrea un'attenzione maniacale basata sulla ragnatela del valore che incorporava tendenze, design, saperi nelle merci utili per lavorare comunicando, spezzando in isole la catena e le catene del lavoro.
Sappiamo come è andata. Nelle retoriche confindustriali del modello produttivo vinse il fordismo hard della Fiat. Carsicamente, il rapporto fabbrica-territorio olivettiano è alla base del nostro capitalismo di territorio che, a fronte della crisi del fordismo, è riemerso nei distretti produttivi, nelle piattaforme che competono nella globalizzazione e nella cultura di impresa delle nostre medie imprese internazionalizzate che oggi sono l'ossatura resiliente nella crisi. Senza la teoria e la pratica olivettiana non ci sarebbero gli imprenditori leader del made in Italy che, nel sentirli parlare del loro radicamento territoriale e andar nel mondo, riecheggiano le parole di Adriano: da Cucinelli a Solomeo a Della Valle nelle Marche, ai Ferrero nelle Langhe, a Boccia a Salerno, alla Brembo con il Chilometro Rosso, alla Diesel di Renzo Rosso nel Nord Est... E per fortuna l'elenco può continuare. Cito due esperienze molto olivettiane. Enrico Loccioni, figlio di agricoltori marchigiani, da elettricista fonda un gruppo specializzato in telecomunicazioni e Ict. La sua impresa ha realizzato una leaf house, la casa a impatto zero, la domotica green e da anni è premiata come fabbrica idealtipica per l'ambiente e le condizioni di lavoro. Isabella Seragnoli di Coesia Spa, che raggruppa imprese della meccatronica nel distretto del packaging a Bologna, con spirito olivettiano ha realizzato a fianco delle fabbriche il Mast mettendo a disposizione del territorio un luogo ove si rappresenta la manifattura, l'arte e la tecnologia con asili aziendali aperti al quartiere.
La questione tra Valletta e Olivetti alla luce di questi esempi mi pare ancora aperta, soprattutto se andiamo a verificare cosa rimane oggi sul territorio della Fiat di Marchionne. Così come quella tra conflitto e cogestione nelle relazioni industriali. Il pensiero di Olivetti era altro dalla logica confindustriale e del sindacato di allora, entrambi fissati nel conflitto tra capitale lavoro, con in mezzo lo Stato come baricentro. La visione di Adriano prevedeva cogestione e coinvolgimento dei lavoratori nella gestione dell'impresa, coesione sociale nel territorio e in mezzo l'eterotopia di una comunità operosa. Anche per la cultura della cogestione, se vogliamo trovare traccia nell'impresa italiana, è al territorio che dobbiamo guardare. Ad una cogestione orizzontale, fabbrichetta per fabbrichetta, nel capitalismo molecolare dove spesso non distingui chi è il padrone e chi l'operaio. O a quelle medie imprese, precedentemente citate, fortemente orientate ad accordi aziendali con al centro il territorio, ancora molto problematici per il sindacato.
Infine la comunità. La vera eterotopia olivettiana nel pensare un luogo del possibile intreccio tra impresa inclusiva e cogestita, coesione sociale sorretta dalla coscienza di luogo e matrice di capitale sociale per i beni comuni. Va di moda sussumere questa radicalità del pensiero comunitario di Olivetti nella responsabilità sociale di impresa. Questa vulgata postmoderna è una fantasmagorica retorica creata dall'alto: allegoria di un'impresa tutta autoreferenziale ove il territorio e la comunità sono fantasmi definiti stakeholder quando quelli che contano davvero sono solo gli shareholder, il profitto a breve per gli azionisti. Nel territorio torna attuale la voglia di comunità (Bauman) dentro la crisi delle appartenenze di classe e il riposizionarsi dei territori nella agorafobia della globalizzazione. Sono le paure che producono rancore nello spaesamento e populismi che attraversano l'Europa dell'euro, ma sono anche, come aveva intuito Olivetti, la comunità che viene (Giorgio Agamben) fatta di cura, mutualismo, cooperazione e solidarietà in relazione con una comunità operosa che fa economia sociale.

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