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Questo articolo è stato pubblicato il 22 novembre 2013 alle ore 23:02.
L'ultima modifica è del 22 novembre 2013 alle ore 23:13.

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«Con il ministro Cancellieri abbiamo qualche conto aperto: per il 2012 ci deve dare 17 milioni di spese per il Palazzo di Giustizia che ancora non sono arrivati, e un milione dall'anno prima». Matteo Renzi, ospite degli studi di Rtv38 per la diretta Twitter di #matteorisponde, ha pungolato così il ministro Annamaria Cancellieri. «Non ho il suo cellulare, a differenza di altri», ha risposto al conduttore che gli chiedeva se avesse telefonato al Guardasigilli: «Le manderò una lettera, risponde a tutti, risponderà anche a me», ha concluso.

Renzi in giornata era tornato ad avvertire chi avesse in animo di delegittimare la sua possibile vittoria alle primarie del Pd, fissate per l'8 dicembre. E però al sindaco di Firenze è piombato addosso il caso Vincenzo De Luca, il sindaco di Salerno nonché viceministro a Infrastrutture e trasporti - diventato renziano (nel capoluogo campano il candidato alla guida dei democratici ha letteralmente sbaragliato la concorrenza, non senza una coda velenosa di sospetti e polemiche) - che difende dopo l'avviso di garanzia sul mega-complesso Crescent, ricevendo in cambio un quantità di critiche.

Si potrebbe tirare in ballo la legge del contrappasso: proprio dopo la vicenda Cancellieri che ha portato Renzi a chiedere un passo indietro del ministro della Giustizia, ora scoppia la grana di De Luca. Nei cui confronti, esattamente come nel caso del Guardasigilli, il M5S ha presentato una mozione di sfiducia. «Le dimissioni si chiedono ai condannati, non agli indagati. In un Paese civile l'avviso di garanzia non è una condanna», mette in chiaro Renzi difendendosi da quanti lo accusano di doppiopesismo.

Il caso Cancellieri, insomma, sarebbe diverso: «In un Paese civile il ministro della Giustizia non chiama la famiglia di tre arrestati e un latitante».

Eppure Renzi il cambiamento continua a rivendicarlo, anche se ciò lo dovesse portare allo scontro con l'esecutivo Letta (che in serata da Berlino ha preferito ribadire che il Pd non si dividerà perché «ha imparato la lezione»). Il Pd, ragiona Renzi, non può fare «il donatore di sangue» o «la bella statuina». Quindi, «dal 9 dicembre si fanno le cose sul serio, si fanno le cose che dice il Pd». Altrimenti? «Altrimenti ci arrabbiamo», scherza il sindaco citando uno dei cult movie di Bud Spencer e Terence Hill.

Il candidato favoritissimo e fresco vincitore della consultazione nei circoli non ci sta ad arrivare alla segreteria come un'anatra zoppa. «Se alle primarie voteranno 2 milioni di persone saranno meno che in passato, ma il punto non è quanti vanno a votare ma chi vince. Non vorrei che il giorno dopo si dicesse: eh, ma sono andati a votare meno».

E Renzi sulla vittoria ci conta, ampia: «Spero di riuscire a prendere più del 50%». Soprattutto, «se vinco io (anche col 50%) il segretario lo faccio io. Se vinco io le correnti spariscono, e la prima sarà quella renziana». E su D'Alema, con cui da qualche giorno si scambia gentilezze: «Era convinto di vincere. Ma è stato sconfitto da un ignorante e superficiale come me. Era prevedibile che reagisse male».

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