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Questo articolo è stato pubblicato il 22 novembre 2013 alle ore 08:00.
L'ultima modifica è del 22 novembre 2013 alle ore 08:15.

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Le motivazioni della sentenza Ruby, chiamiamola così, arrivano a sei giorni dalla seduta del Senato che deciderà sulla decadenza di Berlusconi. A tutti gli effetti è benzina gettata sul fuoco. Si dirà che ormai fa poca differenza. Il voto palese di Palazzo Madama è scontato e nel frattempo Berlusconi è uscito nella sostanza dalla maggioranza: se anche decidesse il passaggio formale all'opposizione, come vuole la logica delle cose, il governo non cadrebbe grazie all'apporto di Alfano.

Tutto questo è noto. Eppure l'asprezza della motivazione avrà come conseguenza di avvelenare gli ultimi giorni di Berlusconi in Parlamento e di accentuare il nervosismo dei suoi sostenitori. E per quanto sia vero che il Berlusconi "politico" è stato al momento sterilizzato, privo com'è di carte da giocare nel palazzo, è anche vero che il sistema non ha bisogno di altri veleni.
Del resto, Berlusconi è ancora in grado di prendere qualche iniziativa. All'uomo non manca la fantasia e inoltre si sente braccato, avverte intorno a sé un crescendo di ostilità. Per un motivo o per l'altro sono in tanti a desiderare un epilogo giudiziario ancora più drammatico e definitivo. Tutto quello che mortifica l'ex premier, lo inchioda ad accuse infamanti e lo allontana dall'area del governo suscita evidente soddisfazione fra gli avversari.

Quindi Berlusconi nelle prossime ore dovrà calibrare bene le sue mosse. Potrebbe scegliere di farsi cacciare dal Senato, in ossequio alla pur contestata legge Severino, e su questo costruire una posizione politica extra-parlamentare. Ma sarebbe trascinato su una linea sempre più massimalista, con tutti i rischi connessi. L'altra ipotesi resta sullo sfondo e adombra dimissioni spontanee presentate prima del voto d'aula del 27. Sarebbe un'astuzia niente male e di sicuro un piccolo colpo di scena. Impedirebbe la pronuncia sulla decadenza e rimetterebbe la procedura sui binari tradizionali. Che prevedono dopo un certo tempo un voto dell'aula per accettare o respingere quelle dimissioni. Voto in questo caso a scrutinio segreto.

Sono astruserie che ai cittadini interessano sempre meno, ma sono indispensabili per capire cosa sta per accadere sul palcoscenico della politica. Dove peraltro sta muovendo i suoi passi Matteo Renzi. E se le parole hanno ancora un senso, il sindaco non si prepara certo a stabilizzare il governo Letta all'indomani dell'ascesa alla segreteria. Anzi, il suo continuo riferirsi a un «nuovo Pd» che non avrebbe salvato il ministro Cancellieri a differenza del «vecchio Pd» (di D'Alema e Letta, sembra di capire), è quasi un programma di rottura.

Come pure bisogna capire cosa intende Renzi quando dice che «dopo l'8 dicembre l'agenda del governo dovrà cambiare». È chiaro che il nuovo leader del centrosinistra vuole far sentire la sua voce, con l'intento di stimolare e pungolare il governo. Ma Renzi è il primo a sapere che il Pd è il principale partner della coalizione, il che mal si adatta con lo stile di un partito «corsaro» come quello a cui pensa il sindaco con l'evidente sottinteso che in dicembre, sotto la sua guida, il Pd entrerà in campagna elettorale. Un duello all'ultimo sangue fra Renzi e Letta rischia di essere distruttivo per entrambi. E soprattutto di bruciare ogni speranza di rinnovamento della sinistra italiana. Peggio che un errore, una sciocchezza.

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