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Questo articolo è stato pubblicato il 24 novembre 2013 alle ore 16:22.
L'ultima modifica è del 25 novembre 2013 alle ore 14:43.

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Dismissioni delle partecipate addio. Con l'emendamento all'articolo 15 della legge di stabilità in discussione al Senato, il Governo cancella con un colpo di spugna i tentativi di razionalizzazione delle società partecipate messi in campo negli ultimi anni.

Niente vendite obbligatorie per le aziende dei Comuni fino a 50mila abitanti, previste dal 2010 e poi rinviate da una serie di proroghe, e niente privatizzazione delle società strumentali, cioè quelle che lavorano quasi solo con la Pa controllante, e che la spending review varata nel 2012 dal Governo Monti chiedeva di vendere o chiudere entro il prossimo 31 dicembre. Tutto abrogato: il panorama attuale delle società di enti locali, Regioni e ministeri può tranquillamente rimanere quello attuale.

Al posto delle sforbiciate, sempre rimaste sulla carta, il governo tenta la strada del controllo dei bilanci, imponendo agli enti che posseggono società in perdita di accantonare riserve e prevedendo, ma solo dal 2017, la chiusura obbligatoria delle aziende che chiudono bilanci in rosso per quattro anni consecutivi. Confermata, ma solo a partire dal 2015, la possibilità di "licenziare" gli amministratori delle partecipate che chiudono in perdita per due anni consecutivi. Sempre dal 2015, arriva un taglio del 30% ai compensi dei manager delle società controllate e titolari di affidamento in house che chiudono in perdita per tre anni consecutivi.

Dall'anno prossimo, invece, è previsto che anche società partecipate, aziende speciali e istituzioni, anche di regioni e camere di commercio, debbano dare una mano nel «conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica». Come? In primo luogo, la norma promette di individuare "parametri standard" dei costi e dei rendimenti dei servizi, traducendo in termini societari il percorso dei fabbisogni standard degli enti locali che però al momento si mantiene lontano dal traguardo.

Più immediato è invece l'obbligo per gli enti proprietari di accantonare in bilancio fondi di riserva, a garanzia delle perdite accumulate dalle società. Le regole di questi fondi procederanno in due tempi: nel 2014, ogni ente dovrà accantonare una somma pari alla perdita registrata dalla sua società nel 2013. Nel 2015-2017, invece, le regole dividono le società in due gruppi, a seconda del risultato medio del 2011-2013: se è positivo, l'accantonamento sarà pari a una quota della perdita conseguita nell'ultimo anno, altrimenti si calcolerà sulla media degli ultimi tre.

L'obbligo di accantonamento è pensato con una doppia funzione: garanzia di copertura, nel tentativo di evitare ripiani dallo Stato per le realtà più in difficoltà, e punizione per l'ente, che dovendo congelare delle risorse non può usarle per la propria spesa corrente. Con una regola interpretativa, poi, si ribadisce che le società in house sono soggette alle stesse regole di personale degli enti proprietari (e agli stessi blocchi di assunzioni, a esempio quando si sfora il Patto di stabilità), e che questa estensione coinvolge anche aziende speciali e istituzioni.

Le nuove regole, come accennato, sostituiscono i precedenti tentativi di razionalizzazione, cancellati con un tratto di penna. Il primo, introdotto dalla manovra estiva 2010, si rivolgeva ai Comuni, e in pratica chiedeva di dismettere tutte le società agli enti fino a 30mila abitanti e di tenere una sola partecipazione a quelli fra 30mila e 50mila residenti. Il secondo, più recente, era stato scritto dal Governo Monti nella spending review del luglio 2012, e mirava a chiudere tutte le società create dalle Pa in appoggio alle loro attività. Tentativo troppo ambizioso, anche perché mai accompagnato da regole che ne aiutassero l'attuazione e spiegassero come gestire il personale.

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