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Questo articolo è stato pubblicato il 27 novembre 2013 alle ore 09:30.
L'ultima modifica è del 28 novembre 2013 alle ore 19:43.

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(Ap)(Ap)

Herat - Se il mondo fosse una città, l'Afghanistan sarebbe un cantiere. Da una parte c'è uno stato appena nato con istituzioni nuove e incomplete. Dall'altra c'è il 70 per cento della sua popolazione che vive di agricoltura nelle zone rurali. In mezzo la missione internazionale Isaf, che, a dodici anni dal suo arrivo in Afghanistan, sta per raggiungere i suoi obiettivi iniziali e lasciare il paese a governarsi liberamente con le sue sole forze. Con circa 3000 uomini sul campo, il contingente italiano è il quarto dopo quello americano (60mila), inglese (8mila) e tedesco (4mila). Numeri destinati a diminuire nel corso del 2014 fino a una riduzione del 60 per cento dell'organico. Gli italiani della brigata meccanizzata "Aosta" di Messina, al comando del generale di brigata Michele Pellegrino, controllano la parte ovest del paese, al confine con Iran e Turkmenistan, un'area grande quanto il nord Italia.

Inoltre il capo di stato maggiore dell'intera missione -il numero tre nella gerarchia di Isaf- è il generale di corpo d'armata Giorgio Battisti. «Ora i rapporti con gli afgani sono ottimi, ci fanno sentire a casa», racconta il generale. Ma appena fuori Kabul la situazione è ancora molto tesa. Scontri a fuoco e attentati sono all'ordine del giorno, anche se non sempre le notizie arrivano sulle prime pagine dei quotidiani. Col termine insurgents si indica genericamente chi combatte contro le nuove istituzioni afgane e contro la missione internazionale, ma nella realtà gli schieramenti non sono affatto chiari. La guerra santa contro gli occidentali è solo uno dei tanti pretesti per cui si spara. Ci sono conflitti etnici e religiosi, scontri tra gruppi criminali, corruzione diffusa a tutti i livelli e ignoranza. Le peggiori condizioni per instaurare uno stato di diritto.

Nonostante tutto, in primavera si terranno le elezioni per il governo e sarà la terza volta dalla caduta del regime dei talebani. Secondo Luciano Pezzotti, ambasciatore italiano a Kabul, «con le elezioni l'insorgenza potrebbe riaccendersi e la lotta fra i possibili successori di Karzai è già in pieno svolgimento. Fino ad ora quasi tutti i capi di stato afgani sono stati assassinati alla fine del mandato, ma tra i candidati alla presidenza ci sono persone oneste e capaci di unire le varie etnie. Un altro problema è la mancanza di investimenti stranieri che porterebbero posti di lavoro e benessere», prosegue Pezzotti. «Fino ad ora l'Italia, come sistema Paese, ha perso questa occasione e lo stesso Karzai se ne è rammaricato più volte».

L'Afghanistan è ricco di rame, ferro, gas naturale, petrolio, uranio e litio, ma il suo territorio, prevalentemente desertico, renderebbe la logistica per lo sfruttamento delle risorse troppo costosa. E poi c'è il problema della sicurezza. La Highway 1, nota col nome di Ring Road, è l'unica via di comunicazione che collega le principali città del paese (le ferrovie non esistono) e per questo è teatro di attentati pressoché quotidiani ai convogli sia civili sia militari.

Nel loro settore di competenza, gli italiani si occupano di tutti gli aspetti della missione, dalla sicurezza in senso stretto alla ricostruzione materiale delle infrastrutture, dall'addestramento dell'esercito e della polizia afgani all'assistenza sanitaria. I paracadutisti del 183° reggimento Nembo schierati alla Fob (base operativa avanzata) "La Marmora" di Shindand pattugliano una porzione della ring road e i villaggi della provincia, tra ragazzini di sette anni che tirano sassi ai Lince e autorità locali più interessate agli aiuti economici che alla costruzione di una scuola o di un ospedale. I lanci di razzi e gli attacchi ai convogli sono routine, ma il processo di transizione tra forze della coalizione e autorità locali non si ferma. Così, come i bersaglieri del 6° reggimento di stanza a Bala Boluk fino alla metà di novembre, anche alla Fob "La Marmora" i paracadutisti del Nembo sono quasi pronti a cedere la base all'Afghan National Army. Il colonnello Franco Merlino, comandante del 183°, spiega che «certi reparti afgani hanno raggiunto uno standard addestrativo molto avanzato e sicuramente saranno in grado di fare un buon lavoro».

A Shindand c'è anche la futura scuola di volo dell'Afghan Air Force ricostituita nel 2010. Il colonnello dell'Aeronautica Luca Vitali è il comandante dell'Air Advisory Team, un gruppo di specialisti italiani, americani e ungheresi che sta addestrando i piloti (tra cui tre donne) e tutto il personale della futura aeronautica afgana. «E' un'esperienza unica e porterò a casa dei ricordi bellissimi –racconta Vitali- gli afgani sono motivati e orgogliosi di poter contribuire allo sviluppo indipendente e sicuro della loro nazione. E alla consegna dei brevetti le loro lacrime sono il migliore riconoscimento del nostro lavoro».

Poi ci sono i Prt (Provincial Reconstruction Team), gruppi di specialisti delle infrastrutture civili e militari che costruiscono materialmente, col supporto di ditte afgane, quello che viene richiesto dai rappresentanti locali. Dalle fogne (mancanti quasi ovunque) alle scuole o alla ristrutturazione delle carceri in cui manca anche l'acqua corrente. Il colonnello Giuseppe Vincenzo Grasso, comandante del Prt di Herat, svolge il suo incarico a stretto contatto con la società civile afgana e con un solo dato riassume il senso e i risultati raggiunti fino ad ora dalla missione: «nel 2001 le scuole di ogni livello erano riservate unicamente ai maschi, ora le ragazze sono il 47 per cento degli studenti». Il futuro parte da qui.

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