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Questo articolo è stato pubblicato il 06 dicembre 2013 alle ore 06:45.

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«Adesso riposa, adesso è in pace». Con queste parole in un commosso discorso televisivo il presidente sudafricano Jacob Zuma ha dato notizia al Paese della morte del suo predecessore Nelson Mandela, avvenuta questa notte. L'ex leader del Sudafrica e vincitore del premio Nobel per la pace aveva 95 anni e da tempo versava in precarie condizioni di salute. Fu l'eroe della lotta all'apartheid nel Paese. «Voglio ricordare con semplici parole la sua umiltà, la sua grande umanità per la quale il mondo intero avrà grande gratitudine per sempre» ha detto Zuma, rivolgendosi ripetutamente a Mandela col suo popolare e affettuso soprannome: "Madiba". Zuma ha ordinato il lutto nazionale. «Oltre alla vita, a un fisico robusto e a un antico legame con la casa reale thembu, l'unica cosa che mio padre mi ha conferito alla nascita è stato un nome: Rolihlahla. In xosa il suo significato colloquiale potrebbe essere reso più felicemente con "attaccabrighe"», dice l'incipit dell'autobiografia di Mandela. Non è molto quello che gli lasciò il padre: figura minore nella vita di Nelson Rolihlahla Mandela. Lui stesso non sarebbe stato una presenza affidabile per i suoi figli, sacrificati alla lotta di liberazione del Sudafrica. Lui era un simbolo: gigantesco ma lontano. Per 27 anni intangibile, dietro le sbarre.
È evidente che attaccabrighe fu un nome azzeccato. Non deve sembrare un insulto per l'uomo che sarà per sempre ricordato come un simbolo di pace e di perdono. Per lui valgono le parole che Albert Einstein dedicò al Mahatma Gandhi: «Le generazioni che verranno stenteranno a credere che un uomo così abbia camminato in carne e ossa su questa Terra». Non si arriva alla tolleranza senza prima conoscere la polvere della mischia. Nelson Mandela le affrontò tutte, le mischie: da quelle infantili nei kraal del clan Madiba, in Transkei, dove era nato il 18 luglio 1918; ai ring dove boxava da "mediocre peso massimo" per apprendere "l'autodisciplina"; dalle aule del tribunale di Johannesburg dove incominciò a fare l'avvocato, ai locali notturni di quella città che stava diventando metropoli. Infine alla lotta politica.
«Che noi la si inizi o no, la violenza incomincerà. Se non ne prendiamo il comando ora, presto saremo i ritardatari e i gregari di un movimento che non controlliamo», aveva scritto nel 1961 all'African National Congress del quale stava diventando un leader. Il 16 dicembre di quell'anno una serie di sabotaggi aprì il conflitto contro l'apartheid che il braccio armato dell'Anc, l'Umkhoto we Sizwe, la Lancia della Nazione, avrebbe condotto per un trentennio, parallelo all'attività politica del partito.
Il Mandela Nobel per la Pace, l'uomo della trattativa con gli afrikaners, del compromesso col capitalismo bianco, delle prime elezioni libere del 1994, non si spiega senza il passaggio dalla lotta armata che fu anche terrorismo: la fase attraverso la quale sono sempre passati i movimenti di liberazione. Eppure, mentre sceglieva la violenza come stato di necessità contro il segregazionismo bianco - dell'Umkhoto fu fondatore e primo comandante - Mandela sosteneva anche l'obbligo di creare una società multirazziale. Non per un'Africa dei neri ma per un Sudafrica di tutti.
«Ci hai mandato la verità e negato la verità; ci hai mandato la vita e privato della vita; ci hai mandato la luce e sediamo nell'oscurità». "Il Principe di Britannia" era l'opera del poeta Mkwayi preferita da Mandela e la sintesi della sua educazione da leader, a partire dal 1934 quando entrò nella scuola dei missionari metodisti di Clarkebury, nel Tembuland. «Come adolescente di campagna sapevo di Londra e Glasgow più di quanto sapessi di Capetown e Johannesburg». Qui e nell'unica università per neri a Fort Hare da dove sarà cacciato per attività politica, poi allo studio Witkin, Sidelsky & Edelman nel quale lavorava, laureandosi in Legge per corrispondenza.
A Fort Hare aveva fatto amicizia con Oliver Tambo, dagli avvocati di Johannesburg con Walter Sisulu, che sarebbero diventati i suoi mentori politici. È la cultura inglese che forma la nuova classe dirigente. In Sudafrica come in India, Londra voleva creare funzionari indigeni per l'impero. Produsse invece leaders per le indipendenze nazionali. Come scriveva il poeta Mkwayi, assieme alla luce della libertà gli inglesi avevano negato il diritto di usarla. Mai quanto gli afrikaners, i boeri del National Party che vinsero le elezioni per soli bianchi del 1948 e metodicamente codificarono la segregazione razziale.
La lotta politica, quella armata, il processo di Rivonia che lo condanna all'ergastolo. Il 12 giugno 1964 Mandela viene rinchiuso a Robben Island, di fronte a Capetown, dove passa 18 dei 27 anni di carcere. Sono gli anni che formano il leader. Anche la polizia riconosce in un rapporto segreto che Mandela è il vero capo dell'Anc, l'unico al quale riferirsi se mai ci dovesse essere una trattativa.
Cade la cortina di ferro, il mondo cambia e arriva il momento per quella trattativa. Mandela torna libero il 2 febbraio 1990 e quattro anni dopo giura da presidente del primo Sudafrica multirazziale. Prima compie un paio di miracoli: impone una specie di divisione dei compiti affidando il potere politico ai neri, lasciando quello economico ai bianchi. Rompe cioè i meccanismi tradizionali e fallimentari della decolonizzazione africana. Poi si accorda con il generale Constand Vilyoen, una specie di Cincinnato boero, per impedire che le elezioni si trasformino in una guerra civile.

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