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Questo articolo è stato pubblicato il 06 dicembre 2013 alle ore 17:54.
L'ultima modifica è del 06 dicembre 2013 alle ore 23:07.

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Deceduto per le ferite riportate nella lotta contro l'apartheid, scriverà il coroner della Storia. E' un'infezione polmonare causata da una polmonite contratta nella prigione di Robben Island, che lo ha ucciso insieme all'età. Con quella lesione ha vissuto per quasi cinquant'anni, ignorandola, combattendo fino all'ultimo istante pur conoscendo l'esito della battaglia.
Tante cose sono state dette e molte ancora se ne scriveranno per raccontare Nelson Rolihlahla Mandela, nato fra le colline del Transkei il 18 luglio 1918. Tuttavia, per sintetizzare il carattere dell'uomo bastano due versi di una poesia, "Invictus", la sua preferita anche se piena della retorica vittoriana dell'autore, William Ernest Henley: "I am the master of my fate. I am the captain of my soul".

A dispetto del colonialismo inglese, del razzismo, dell'apartheid degli afrikaners bianchi che avevano metodicamente codificato la separazione razziale sudafricana. A dispetto dell'esilio e della prigione, nessuno è mai riuscito a privare Mandela del controllo del suo destino e del possesso della sua anima.
"Ndiyindoda!" fu la parola che Nelson gridò a 16 anni il giorno in cui fu circonciso sulle rive del fiume Mbashe, nell'Eastern Cape. "Sono un uomo", parte della tribù thembu, della nazione xhosa, dell'Africa intera. Madiba, il nome che indicava l'origine tribale, finiva la prima stagione della sua vita, quella delle radici. Iniziava quella dell'uomo.

Sono due le scuole principali che hanno fatto di Mandela l'uomo che conosciamo. L'Università di Fort Hare, la prima che gli inglesi aprirono per i neri del loro impero africano. Vi avrebbero studiato anche Robert Mugabe dello Zimbabwe, il tanzaniano Julius Nyerere, il presidente dello Zambia Kenneth Kaunda e del Botswana Seretse Khama. Per un certo periodo il cappellano dell'università fu Desmond Tutu.
La seconda fu l' "Università di Robben Island". La chiamarono così i dirigenti e gli attivisti dell'African National Congress rinchiusi nell'isola prigione davanti a Capetown. Mandela vi passò vent'anni, dal 1962 all'82. Altri sette, gli ultimi, li fece nel carcere di Pollsmoor.

Fu qui che maturarono il leader e la politica che avrebbero creato un modello rivoluzionario per l'Africa e il mondo: la Rainbow Nation, la nazione arcobaleno, la società multirazziale nella quale la maggioranza nera avrebbe vissuto insieme ai suoi antichi persecutori. In pace, cittadini della stessa nazione, con gli stessi diritti. Robben Island non fu solo scuola di vita per la durezza dei carcerieri. Rischiando punizioni severe, i detenuti studiavano testi di politica ed economia entrati clandestinamente in carcere, discutevano di quale sistema e quale Paese avrebbero costruito, convinti che un giorno vi sarebbero riusciti.
In mezzo, tra Fort Hare e Robben Island, ci fu la pratica da avvocato, la lega giovanile dell'Anc, le prime battaglie, la crescita di Johannesburg come prima officina metropolitana politica e sociale d'Africa; i processi in difesa dei compagni di lotta e quelli contro di lui, sostenuti dal regime boero che nel 1948 aveva vinto le elezioni (solo per bianchi) e imposto l'apartheid.

La separazione razziale prevedeva anche che nelle scuole dei neri non si dovesse insegnare la matematica: il ruolo che avrebbero avuto nella società non lo richiedeva.
E' un miracolo che da tanto odio potesse nascere il Sudafrica che conosciamo oggi. Prima di essere processato e condannato definitivamente, Mandela aveva creato e comandato l'Umkhonto we Sizwe, la Lancia della nazione, l'ala militare dell'Anc. Senza passare attraverso la lotta armata e l'uso del terrorismo, forse non ci sarebbe stata una Rainbow Nation né la riconciliazione razziale.

Nel 1988, appena uscito da 27 anni di prigione, Mandela incontrò l'uomo che non avrebbe voluto liberarlo, l'allora primo ministro P.W. Botha, un uomo duro, incapace di capire il mutare dle tempo. Lo affrontò e lo stese "con una robusta stretta di mano e un gran sorriso".
Tanti anni fa Albert Eistein scrisse del Mahatma Gandhi: "Le generazioni che verranno a fatica crederanno che un uomo così abbia camminato in carne e ossa su questa Terra". Abbiamo avuto la fortuna di averne un altro di questi uomini straordinari. Forse è una ragione di ottimismo in questa nostra solitudine, senza Madiba Mandela.

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