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Questo articolo è stato pubblicato il 07 dicembre 2013 alle ore 18:52.
L'ultima modifica è del 07 dicembre 2013 alle ore 19:07.

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Il Parlamento ci riprova. Tra gli oltre 3mila emendamenti al Ddl stabilità alla Camera, spuntano di nuovo due proposte per introdurre una web tax dopo che al Senato non se n'era fatto nulla. E sono due proposte che portano la firma di deputati Pd. La prima punta a obbligare l'acquisto di servizi online, sia di e-commerce che di pubblicità, solo da operatori con partita Iva italiana. La seconda, invece, punta a prevedere una stabile organizzazione, quindi una società che è obbligata a pagare le tasse in Italia, in presenza di un «utilizzo abituale» della rete italiana per trasmettere dati verso indirizzi Ip italiani in modo da fornire servizi online. Due tentativi di tassare Google e gli altri grandi player della rete che adesso sfuggono al prelievo delo Fisco italiano.

L'obbligo di acquisto da chi ha partita Iva italiana
La proposta, con primo firmatario il deputato democratico Edoardo Fanucci e ispirata dalla proposta di legge presentata nelle scorse settimane dal presidente della commissione Bilancio di Montecitorio, Francesco Boccia, punta a obbligare l'acquisto di servizi online da operatori con partita Iva italiana. L'obbligo scatterebbe non solo per i servizi di e-commerce (diretto o indiretto) ma anche per l'acquisto dei link sponsorizzati che appaiono nelle pagine dei risultati dei motorori di ricerca visualizzabili sul territorio italiano. In pratica, l'inserzione potrebbe essere venduta solo da imprese con regolare partita Iva italiana. Una soluzione per arginare il fatto che il traffico pubblicitario italiano viene sempre più acquistato all'estero da operatori stranieri. Con questi ultimi che, a loro, volta vendono dall'estero. Così l'operazione di compravendita è del tutto sconosciuta al Fisco italiano, che quindi non vede entrare neanche un euro di tassazione. L'obbligo a cui punta l'emendamento riguarderebbe, comunque, le transazioni tra imprese o comunque tra operatori economici sogetti passivi Iva (gli scambi business to business) e consentirebbe di far pagare l'imposta sul valore aggiunto nel nostro Paese.

Naturalmente, ogni volta che si ha a che fare con l'Iva bisogna sempre ricordare che la materia non può essere mai liberamente disciplinata a livello nazionale ma è necessario concordare le modifiche all'imposizione sempre in ambito comunitario.

L'utilizzo della rete nazionale
La proposta - in realtà sarebbero due (una short e una un po' più articolata) - firmata da Ernesto Carbone (sempre del Pd) non si limita all'ambito Iva, ma anzi punta a intervenire sulla tassazione dei redditi prodotti in Italia. In pratica, a fare la differenza sarà l'utilizzo rilevante della rete nazionale (fissa, mobile o satellitare) per trasmettere dati da elaboratori elettronici fuori o dentro i confini italiani verso indirizzi Ip italiani per fornire servizi online. E tra questi ultimi sarebbero annoverate anche tutte le azioni per accrescere la visibilità di un sito, di un link o di un banner. Che cosa succederebbe in questo caso? Chi formalmente ha la sede legale all'estero ma utilizza la rete italiana in modo «abituale» sarà considerato una stabile organizzazione e quindi dovrà pagare al Fisco italiano le tasse sui redditi prodotti in Italia.

La relazione all'emendamento Carbone spiega, infatti, che un «flusso di dati con un elevato tasso presuppone sia un preciso target di riferimento per il business sia per la costante fruizione di infrastrutture di rete localizzate sul territorio nazionale, da cui si possa evincere una nuova forma di stabile organizzazione».

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