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Questo articolo è stato pubblicato il 10 dicembre 2013 alle ore 14:36.

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Fornelli spenti, mestoli appesi e tavoli vuoti: è questa l'immagine che ieri sera si vedeva in trenta tra i più importanti ristoranti di Bologna. Tutti chiusi per sciopero per protestare contro una pressione fiscale ritenuta dai titolari dei locali vessatoria e ingiusta.
La prima serrata dei ristoratori, che come in ogni sciopero che si rispetti hanno rinunciato a un giorno di lavoro e di guadagno, si è appena conclusa e già i suoi organizzatori sono pronti a fare il bis, allargandone i confini ad altre città.

Per capire l'insofferenza che si agita tra coltelli e forchette basta ascoltare lo sfogo di Max, titolare di un locale del capoluogo: "Lo Stato è per noi come un socio occulto – spiega arrabbiato Max - con percentuali che vanno dal 65 al 71% dei nostri guadagni, siamo allo schiavismo, così non si può andare avanti". Tra frustrazione e recriminazione la requisitoria del ristoratore prosegue sottolineando che è impossibile creare occupazione se "un dipendente prende 1.100 euro di stipendio al mese e ne costa 34mila e rotti al suo datore di lavoro".

In attesa di saltare su un treno, giovedì, con destinazione Roma e presentare le proprie istanze al Governo, gli osti bolognesi sono saliti in cima alle torri della Regione dove hanno incontrato il segretario alla presidenza, Alfredo Bertelli che, dopo avere manifestato la propria solidarietà ai ristoratori, confermando che in effetti la pressione fiscale in Italia è in generale troppo elevata ma che la Regione non può farci niente, ha garantito che parlerà della loro situazione al governatore Vasco Errani.

Se le cose non cambieranno, gli osti di Bologna (ma a questo punto non più solo loro) sono pronti allo sciopero fiscale: "Siamo alla canna del gas - ha mestamente ricordato qualcuno - avanti di questo passo rischiamo di dover lasciare a casa dipendenti che lavorano con noi da una vita".

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