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Questo articolo è stato pubblicato il 15 dicembre 2013 alle ore 08:45.

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Barcaiolo sul Po, Piero da Codigoro era veramente un ladro e un assassino? Di sicuro, come tale venne condannato a morte nella Ferrara del 1485. Impiccato alla finestra del Palazzo comunale. Ma allo sguardo dei buoni cristiani la sua morte fu anche peggiore della vita. Perché Piero da Codigoro rigettò il misericordioso soccorso che gli veniva offerto, si finse «stramortito» per non prestare ascolto agli uomini della confraternita di Santa Maria Annunziata: i laici che nel ducato estense si erano dati per scopo di assistere spiritualmente i rei alla vigilia dell'esecuzione, e di guidarli verso un pentimento che avrebbe loro guadagnato – se non la trascurabile salvezza del corpo – la decisiva salvezza dell'anima. «Che volite che io dica, io non ho peccatto» replicò il barcaiolo, rigettando l'invito a confessarsi. «Cenò molto bene» e dopo cena, ancora per non ascoltare i confratelli, «si finse dormentato». Deposto dalla forca venne trattato a dovere: «El corpo suo fu getatto nel Po per escha de animali, come lui meritava».
Piero da Codigoro rappresenta un'eccezione, il suo è un caso assolutamente minoritario. Fa il paio con quello di Carlo Sala, ex novizio francescano condannato a morte nella Milano del 1775 – la Milano teresiana – per furti sacrileghi e lettura di libri proibiti. Visitato in carcere nientemeno che dal conte Pietro Verri, Sala respinse le profferte di assistenza spirituale così dell'alto funzionario asburgico come dei confortatori della locale compagnia di giustizia. «Fu tutto indarno»: il reo rimase fedele a princìpi di miscredenza che sembrava avere appreso «sotto la dettatura di Mons. Volterre». «Si cibò discrettamente» prima di essere impiccato alle forche della Vetra e trascinato cadavere ai bastioni di Porta Tosa.
Durante i tre secoli di storia italiana che separano la morte di questi due oscuri refrattari, la scena madre dell'ultima notte del condannato si svolse normalmente secondo un copione ben diverso: il copione di rei (veri o presunti) che morituri accoglievano l'abbraccio della Chiesa come si coglie l'occasione della vita. Che accettavano di ravvedersi, si confessavano last minute, e riconoscenti incassavano il perdono di Dio un attimo prima di subire rassegnati la vendetta dello Stato. Veri pentiti? Comunque – cristianamente – veri salvati, quand'anche immediatamente consegnati alla forca, o al rogo, o alla ruota. Salvati come Gian Matteo Bertoldi, che nella Bologna del 1710 non si appagò di corrispondere attraverso ripetute confessioni alle cure dei laici della confraternita di Santa Maria della Morte. Condannato per avere detto messa senza ordinazione sacerdotale, prima di essere decapitato in piazza Maggiore Bertoldi «accarezzò, ringraziò, e bacciò il carnefice»...
Altro che l'inquietante, orroroso, carnevalesco splendore dei supplizi d'antico regime, memorabilmente evocato dal Michel Foucault di Sorvegliare e punire: è edificante, ordinato, devoto lo spettacolo dei supplizi di cui Adriano Prosperi ha ricostruito la storia in Delitto e perdono. Appunto una storia, per così dire, della cristianizzazione della pena di morte. Cioè dell'investimento teorico e pratico grazie al quale – a partire dall'Italia centro-settentrionale, fra Trecento e Quattrocento – la cultura cristiana sormontò il problema dell'interdetto biblico di uccidere organizzando intorno alle esecuzioni capitali un articolato sistema di «conforterie» e «perdonanze»: come per una moltiplicata, quasi infinita riedizione dell'episodio evangelico del Buon Ladrone.
Professore emerito alla Normale di Pisa, Prosperi è forse il maggiore storico italiano. I suoi studi sull'Inquisizione romana hanno fatto epoca, al pari delle sue ricerche sopra le mentalità collettive nel l'Europa cristiana. Il libro dal titolo dostoeveskijano difficilmente verrà annoverato tra i suoi migliori: se pure lungo e drammatico come un romanzo di Dostoevskij, manca della felicità narrativa e dell'intensità argomentativa di un'opera altrettanto originale che fluviale qual era Tribunali della coscienza. Per giunta, il libro accusa limiti di editing sorprendenti rispetto agli standard della casa editrice Einaudi. Si apre gratificando il presidente Barack Obama di quello che sarebbe uno strafalcione d'ortografia degno dell'indimenticabile vicepresidente Dan Quayle, e prosegue con ripetizioni di frasi (a volte di intere mezze pagine) che manifestamente derivano da incontrollati taglia e incolla. Ma Delitto e perdono resta un libro importante. Non sarà semplice, in futuro, aggiungere granché a questa enciclopedica storia della pena di morte nell'Italia (e, per analogia o per confronto, nell'Europa) moderna.
Di là da differenze di dettaglio, gli statuti delle compagnie di giustizia negli Stati italiani di antico regime prescrivevano un cerimoniale identico nella sostanza. Le ultime ventiquattr'ore di vita del condannato si svolgevano in due tappe – la prima riservata, la seconda pubblica – che contemplavano l'ininterrotta presenza accanto al reo, in turni successivi, dei confortatori laici. Sempre uomini e mai donne, poiché l'amministrazione della «santa Giustizia» non era cosa da femmine. E quasi sempre gentiluomini, poiché la cura delle anime anche più depravate non era cosa da plebei: ai facchini spettava piuttosto di occuparsi, a cose fatte, del corpo del giustiziato. La parte riservata della «funzione» si inaugurava verso sera e accompagnava il «paziente» dalla sollecitazione a pentirsi, attraverso l'intervento notturno del sacerdote che ne raccoglieva la confessione, sino alla messa mattutina dove riceveva la comunione. La parte pubblica iniziava con la processione dei confortatori e del condannato verso il luogo delle esecuzioni, era segnata dalla presenza simbolica del crocifisso, e culminava davanti alla folla cittadina con l'applicazione della sentenza capitale. La buona morte cristiana come garanzia del buon ordine sociale: in questo si riassume il senso di un rituale – l'omicidio legale dei rei – celebrato innumerevoli volte negli antichi Stati italiani dell'età moderna. Per la sola Milano spagnola sono state conteggiate 1.767 esecuzioni tra il 1535 e il 1706, fossero per eresia, sodomia, infanticidio, stregoneria, congiura. Un piccolo esercito di luterani bruciati sul rogo, assassini di strada squartati, cospiratori politici «strusati per Milano a coda di cavallo», «untori» della peste suppliziati sulla ruota, ma tutti quanti confortati dai laici, e perdonati dai chierici se appena appena si dichiaravano pentiti e accettavano di confessarsi.

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