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Questo articolo è stato pubblicato il 17 dicembre 2013 alle ore 10:51.
L'ultima modifica è del 17 dicembre 2013 alle ore 11:57.

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(Ansa)(Ansa)

Quella scattata da Paolo Pedrizzetti (morto ieri ad Arona) non è solo la foto che ha fatto il giro del mondo, diventata simbolo degli Anni di piombo italiani, congelando l'attimo e consegnandolo alla storia. Ma è anche l'immagine che ha permesso di ricostruire l'intera dinamica degli scontri di quel cupo 14 maggio 1977, quando durante una manifestazione un gruppo di autonomi estrasse le P38 e iniziò a sparare all'impazzata ad altezza d'uomo contro le forze dell'ordine. Quando Pedrizzetti scatta la foto dell'autonomo con il passamontagna con la gambe piegate e la pistola impugnata con due mani, in fondo alla via, tra le file della Celere, il vicebrigadiere Antonio Custrà è già a terra, colpito alla testa. Poche ore dopo sarà dichiarato morto.

La foto viene pubblicata la sera stessa dal Corriere d'Informazione, poi ne saltano fuori altre, diventate altrettanto famose, che inquadrano tre ragazzi armati con il volto coperto che sparano verso le forze dell'ordine, simbolo di un terrorismo diffuso che sembra prendere il controllo delle piazze. I quattro vengono identificati: i tre ragazzi sono liceali milanesi, quello con la pistola e il passamontagna è Giuseppe Memeo. Tutti dell'area dell'Autonomia, quest'ultimo si dà alla clandestinità ed entra nei Pac, i Proletari armati per il comunismo, quelli di Cesare Battisti, che due anni dopo uccidono il gioielliere Torregiani. Ma nessuno di loro può essere quello che ha colpito in maniera letale Custrà: sono troppo lontani e le pistole non coincidono con il colpo di 7,65 che uccise l'agente.

Ma il giudice istruttore Guido Salvini, anni dopo, torna a esaminare la foto con attenzione e va oltre l'autonomo con il passamontagna. Dietro di lui, dietro a un albero, c'è un giovane biondo che fotografa. Da quell'immagine nasce un rimando di fotografi che riprendono fotografi che fanno fotografie, in una vicenda che riporta alla mente il film "Blow up" di Michelangelo Antonioni. Il giudice identifica il fotografo, perquisisce la sua casa e ritrova nascosti tra i libri i negativi di 28 scatti che dall'altra parte della strada permettono di ricostruire l'intera giornata. Perché di fotografi quel pomeriggio ce ne sono tanti, una decina, abituati a riprendere il movimento e le manifestazioni, rischiando di loro. Nelle immagini si vede una ragazza, nascosta dentro un ingresso, che scatta verso l'autonomo con il passamontagna: lui se ne accorge, la minaccia con la pistola e si fa consegnare il rullino. Accanto a lei c'è Pedrazzoli, che riesce invece a fotografare senza essere visto.

Le nuove immagini mostrano un gruppo che si stacca e avanza verso il cordone di poliziotti, nascondendosi dietro le macchine posteggiate. Dal gruppetto di autonomi esce un uomo che fa fuoco: è Mario Ferrandi, militante di Prima Linea. È lui il responsabile del proiettile che colpì Custrà alla testa e il giudice lo incastra grazie a quelle immagini. In mezzo alla folla dei manifestanti viene identificato anche Marco Barbone, con in mano un fucile con il manico segato. Tre anni dopo, nel maggio 1980, è lui a sparare a Walter Tobagi, giornalista del Corriere della Sera, ennesimo episodio di un terrorismo diffuso fatto di sigle nuove fatte di ragazzi che mirano a entrare nelle Brigate Rosse. Ma ormai gli Anni di piombo si stanno esaurendo. Anche grazie a quelle fotografie.

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