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Questo articolo è stato pubblicato il 31 dicembre 2013 alle ore 20:55.
L'ultima modifica è del 31 dicembre 2013 alle ore 21:48.

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Un messaggio che comincia parlando direttamente agli italiani, rispondendo ad alcune lettere che ha ricevuto, tutte emblematiche della «fatica sociale» che il Paese sta attraversando. Dal piccolo imprenditore che ha dovuto chiudere la sua azienda, al giovane disoccupato che sente che l'Italia non scommette sui giovani: per Giorgio Napolitano questi singoli casi diventano il racconto di ciò che l'Italia ha passato in questi anni attraversata da una crisi prima finanziaria poi economica fino al cortocircuito politico-istituzionale delle scorse elezioni che lo hanno costretto ad accettare il secondo mandato.

Dal capo dello Stato arriva anche un forte e importante riconoscimento alle industrie italiane che alla crisi economica di questi anni hanno reagito con il coraggio dell'innovazione. Guadagnando, sottolinea Napolitano, competitività nelle esportazioni ed esibendo eccellenze tecnologiche. In questo nucleo forte dell'industria e dei servizi, auspica il Presidente, vanno cercati l'esempio e l'impulso per la ripresa del paese.

«Non disperdere i sacrifici» è l'appello che fa agli italiani ma alla stessa politica chiamata in causa proprio da quelle lettere sul fatto che i sacrifici debbano coinvolgere tutti e innanzitutto la classe politica. Qualche passo è stato fatto, dice il capo dello Stato, citando la legge sull'abolizione del finanziamento pubblico e l'abolizione delle province. Ma sono solo passi perchè Giorgio Napolitano, a questo punto, si aspetta molto di più. E quell'aspettativa la concentra sul «patto di programma» su cui le forze di maggioranza che sostengono l'Esecutivo si sono già spese. È dunque questo il passo, più lungo, più consistente – che deve coprire tutto il 2014 – che il capo dello Stato si aspetta e che in qualche modo "benedice". Chiarendo però con molta nettezza che è «il Parlamento l'unico giudice».

Dunque il Parlamento, con le forze politiche di maggioranza e opposizione, è l'unico arbitro. Non lui, come strumentalmente indicano alcune forze di opposizione. A loro si rivolge anche con asprezza dicendo di aver esercitato il suo ruolo nei limiti della Costituzione e senza indebite interferenze. Un chiarimento dovuto a chi come Grillo lo accusa di aver violato la Costituzione e minaccia la messa in stato d'accusa. Attacchi che il capo dello Stato respinge con durezza, e dai quali – dice– non si farà intimorire nè condizionare. Nessun passo indietro quindi, nessuna remora a continuare a esercitare con coerenza e senso del dovere quel mandato che accettò, suo malgrado, sotto le pressioni di partiti che il 20 aprile lo pregarano di accettare una rielezione. Ma allora, come quel 20 aprile, ripete quello che disse: che le sue dimissioni non sono escluse. «Fino a quando la situazione del Paese e delle istituzioni lo consentiranno e fino a quando lo consentiranno le mie forze». Non un minuto di più.

Sul tavolo ci sono le riforme istituzionali, quelle a cui ha legato l'accettazione del suo mandato bis, e in primo luogo la legge elettorale – dice – a maggior ragione ora dopo una sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale il Porcellum. Dunque le carte per il cambiamento sono nelle mani delle forze politiche, di maggioranza e di opposzione che possono contribuire al cambiamento e alla crescita economica. Una sferzata arriva a quei partiti «distruttivi» che evocano un «tutti contro tutti» senza dare soluzioni concrete al Paese. Un j'accuse senza giri di parole.

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