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Questo articolo è stato pubblicato il 03 gennaio 2014 alle ore 06:38.

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È stata una lunga marcia quella della Fiat negli Stati Uniti, coronata adesso dalla totale conquista della Chrysler. In America Giovanni Agnelli era andato, la prima volta, nell'aprile 1906, per inaugurare a Broadway un'agenzia commerciale della Casa torinese.

Valerio Castronovo

Ma soprattutto per osservare, durante una ricognizione alla Ford, i nuovi procedimenti di lavorazione introdotti da Charles Sorensen. E a Detroit c'era tornato tre anni dopo per vedere all'opera la prima linea di montaggio, ripromettendosi da allora di fare come Henry Ford, con cui aveva stabilito personali rapporti di amicizia. C'erano d'altronde alcuni tratti in comune fra loro essendo figli di agricoltori e avendo esordito entrambi con la costruzione di un quadriciclo a motore.
Negli Stati Uniti la Fiat aveva creato successivamente, durante la Grande Guerra, un'officina a Poughkeepsie, nei pressi di New York. Ma il progetto con la Nash Motor Company di Charles Nash (un self-made man con una buona esperienza alla General Motors) per costruire vetture di lusso, nel 1922 venne relegato in un cassetto. D'altronde, la Fiat aveva intanto concentrato ogni sua risorsa nella riorganizzazione della propria fabbrica torinese, su modello fordista, conclusasi nel 1923 con l'attivazione dello stabilimento del Lingotto, il più grande a quel tempo in Europa, e una catena di montaggio a struttura verticale in cui vennero tradotti i precetti di standardizzazione della produzione elaborati da Frederick Taylor. La Fiat ebbe così modo di accrescere le sue esportazioni, essenziali per le proprie fortune, dato che in Italia la domanda era ancora esigua. Ad assecondare la sua ascesa fu anche un cospicuo prestito della Banca Morgan, fiduciosa nelle potenzialità della Fiat, che aveva iniziato a costruire pure motori navali veloci a iniezione diretta in collaborazione con l'americana Nordberg di Milwaukee.
Ad accreditare il senatore Agnelli negli Stati Uniti era stata successivamente la sua proposta, diffusa nel giugno 1932 dalla catena giornalistica dell'United Press, di ridurre le ore di lavoro a parità di salario per riassorbire la disoccupazione e rilanciare la domanda nelle spire della Grande crisi del '29. E se la Fiat era riuscita ad attutire le pesanti ripercussioni della recessione grazie a un accordo con la Russia di Stalin per la realizzazione a Mosca da parte della Riv di un grande stabilimento di cuscinetti a sfera, era stato poi il lancio nel 1936 della «Topolino», la più piccola utilitaria del mondo, a indurre i dirigenti della Ford e della General Motors a valutare l'ipotesi di un «gentlemen's agreement». In pratica, la Casa torinese avrebbe potuto contare su un certo spazio di mercato negli USA per le sue vetture di piccola cilindrata e a basso consumo di carburante; in cambio, le sue agenzie commerciali in Europa avrebbero appoggiato la collocazione di alcuni modelli di grande cilindrata dei due colossi di Detroit. Senonché le sanzioni della Società delle Nazioni contro l'Italia per la guerra d'Etiopia mandarono a monte questo progetto e così pure quello di un accordo fra la Società Italiana Anonima Petroli, controllata dalla Fiat, e la Standard Oil.

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