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Questo articolo è stato pubblicato il 05 gennaio 2014 alle ore 20:15.
L'ultima modifica è del 05 gennaio 2014 alle ore 20:38.

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«Guardi, il problema non è tanto Berlusconi ma Grillo. L'antipolitica, il populismo: questo il vero pericolo». Era il 9 febbraio scorso e mancavano solo due settimane alle elezioni politiche. Pier Luigi Bersani stava prendendo l'aereo per un'iniziativa elettorale a Torino. E per la prima volta, parlando con il Sole 24 Ore, faceva trapelare la paura di non farcela. Ma l'entità della catastrofe che si preannunciava per il candidato premier del centrosinistra e per il Pd non l'avevano prevista né lui né i sondaggisti. Né tantomeno cronisti e commentatori che già si esercitavano (ci esercitavamo) sui problemi che avrebbe avuto un governo guidato da Bersani con dentro sia Scelta civica di Mario Monti sia Sel di Nichi Vendola.

Il 25 febbraio, via via che lo spoglio delle schede reali prende il posto dei primi exit poll favorevoli al centrosinistra, l'incubo si materializza: in Senato non basta l'alleanza con Scelta civica per fare una maggioranza di governo. Si è all'ingovernabilità pura. Nessuno, a cominciare dai sondaggi falliti clamorosamente, aveva previsto il boom del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo: oltre il 25%, primo partito alla Camera se si considera il Pd da solo senza l'alleanza con Sel, e con i suoi 54 senatori partito decisivo in un Senato spaccato.

«Siamo arrivati primi ma non abbiamo vinto», dice un Bersani provatissimo in una conferenza stampa convocata il 26 sera, a più di 24 ore dal risultato elettorale. E lì, tra lo stupore dei molti che si aspettavano le dimissioni, Bersani annuncia la sua volontà di restare in campo per provare a fare quel "governo di cambiamento" con il M5S che quasi da subito appare velleitario.

La soluzione difficile ma senza alternativa del governissimo con il "giaguaro" Berlusconi, chiara a molti in quei giorni dentro il Pd a cominciare dal vicesegretario Enrico Letta, faticherà a prendere forma. Nei due mesi successivi Bersani perseguirà caparbiamente il sogno del "governo di cambiamento" guidando nel frattempo un gruppo parlamentare stordito e in parte ingovernabile (quasi duecento i giovani parlamentari alla prima esperienza, scelti con le parlamentarie) nei meandri dell'elezione del presidente della Repubblica: i democratici affossano prima (in quasi duecento) Franco Marini e poi il fondatore dell'Ulivo Romano Prodi, tradito dagli ormai famosi "101".

Solo dopo la débâcle, che porta alla rielezione di Giorgio Napolitano e alla formazione di un governo di larghe intese guidato dal giovane vice Letta, Bersani annuncerà le sue dimissioni irrevocabili.

L'elaborazione della sconfitta, o non vittoria, è stata senz'altro lenta e forse a Bersani si può rimproverare di non avere gestito al meglio l'elezione del successore di Napolitano, se non altro perché Marini e Prodi rientravano in due schemi opposti: il primo avrebbe favorito un governo delle larghe intese, il secondo avrebbe probabilmente favorito un governo di scopo con il compito di riformare il Porcellum e tornare al voto.

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