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Questo articolo è stato pubblicato il 07 gennaio 2014 alle ore 11:47.
L'ultima modifica è del 07 gennaio 2014 alle ore 14:12.

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NARDI - Occorre scalare una parete di 4000 metri, il doppio degli altri ottomila. Non a caso, oltre al Nanga Parbat è rimasto solo il K2 inviolato d'inverno, con i suoi 3600 metri di dislivello. Poi il Karakorum è decisamene più freddo dell'Himalaya, le condizioni meteorologiche sono più avverse e imprevedibili.

Esplorazione, conquista di un primato, soddisfazione personale: quale aspetto conta di più nel suo alpinismo?
MORO - L'esplorazione. La soddisfazione personale è importante, ma con tre prime invernali avrei già potuto chiudere la carriera. Ho voglia di mettermi alla prova, di vivere ma non morire per un sogno.
NARDI - Il primato non m'interessa. Scoprire se riuscirò a sopportare una realtà così massiccia come il Nanga Parbat d'inverno e da solo, vedere come riuscirò a cavarmela: questo mi dà l'adrenalina. L'alpinismo è avventura, esplorazione anche interiore. È la capacità irrazionale di andare incontro alle difficoltà nelle condizioni estreme, perseverando.

Eppure scalare il Nanga Parbat d'inverno sembra impossibile. Ha paura di fallire?
MORO - L'impossibile è solo un alibi quando non hai abbastanza voglia di spaccarti la schiena. La dedizione non ha orari né limiti, tranne quelli imposti dalla morale e dagli affetti.
NARDI - La paura è fondamentale in montagna. Ti fa capire quando è il momento di tornare indietro. Va gestita ma quando supera un certo limite, bisogna scendere.

Quali segni particolari scriverebbe sul suo passaporto?
MORO - Uomo del freddo e della fatica.
NARDI - In dialetto direi "capatosta", coraggioso e determinato.

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