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Questo articolo è stato pubblicato il 21 gennaio 2014 alle ore 07:37.
L'ultima modifica è del 21 gennaio 2014 alle ore 07:39.

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Ma l'aiuto di Stato è uguale per tutti? La domanda sorge spontanea (e ha ben poco di retorico) davanti al silenzio europeo sull'operazione Peugeot-Eliseo-Cina che porterà lo Stato francese al vertice della catena di comando della disastrata casa automobilistica d'Oltalpe. Un silenzio che è davvero inspiegabile, se si pensa al (mal)trattamento che riceve l'Italia ogni qualvolta viene soltanto ipotizzato un intervento pubblico di salvataggio su un'azienda privata o una mal privatizzata.

Come dimenticare le dichiarazioni minacciose su ricorsi e cause, lanciate non solo dai concorrenti ma anche da Bruxelles, quando si è cominciato a parlare di un intervento delle Poste in Alitalia? O come giudicare il fuoco di sbarramento - sempre nel nome del libero mercato - a cui è stata sottoposta la Cassa Depositi e Prestiti quando si è pensato a un suo intervento di salvataggio di Telecom Italia o soltanto della sua rete?

E dire che - almeno su questo terreno - di argomenti per sostenere che contro l'Italia ci sia una sorta di accanimento «ad rem publicam» è quasi legittimo: ciò che a noi è vietato ad altri sembra consentito, come dimostra la quota del 27% (13,5% allo Stato e 13,5% al Fondo Strategico di investimento) che l'Eliseo ha investito in France Telecom, o il pacchetto del 31% del capitale che lo Stato tedesco e la Kfw (la Cdp tedesca) possiedono in Deutsche Telekom. L'elenco potrebbe continuare in Europa, in America e soprattutto in Asia, dove l'azionista pubblico è generalmente presente in ogni conglomerata. E a proposito di Asia, nel caso Peugeot i teorici del libero mercato dovrebbero addirittura scendere in piazza: nella casa automobilistica, seconda per produzione a livello europeo, non entrano uno Stato, bensì due, visto che Dongfeng è controllata al 100% dal governo cinese.

Insomma, con Cina ed Eliseo, la Peugeot si appresta a diventare una «poltrona per due», visto che la famiglia che oggi controlla quasi il 25% vedrà diluire la propria quota fin sotto il 14%, per poi scomparire con il tempo. Ma nessuno dice niente. Questo giornale conduce da sempre una battaglia per difendere il ruolo dell'industria privata e soprattutto la ricerca di soluzioni di mercato alle più sbrigative e pericolose operazioni di sistema, ma davanti al caso francese vien da pensare che i nostri partner si stiano avviando esattamente nella direzione opposta. Dopo la Francia, infatti, potrebbe essere la volta della Spagna, dell'Inghilterra e persino della Germania, viste le dichiarazioni recenti del direttore finanziario della Volkswagen Hans Dieter Poetsch sull'impatto della crisi europea dell'auto: «Senza l'aiuto o l'intervento dei Governi - ha detto il manager al Salone dell'auto di Parigi - molte case europee non saranno in grado di sopravvivere». A questo punto sorge una domanda: vale anche per l'Italia? Visto che persino la Cassa integrazione viene a volte paragonata all'estero (e in realtà anche in Italia) a un aiuto di Stato, che cosa accadrebbe se la Fiat - invece di andarsene all'estero - decidesse di aprire un negoziato con il Governo?

In attesa di avere risposte più chiare dagli esperti sull'ipotesi dell'interdizione «ad rem publicam», val comunque la pena di fare alcune riflessioni sul «fallout», la ricaduta, che un salvataggio pubblico (in tutti i sensi, visto il ruolo di ben due governi) potrebbe avere sul mercato europeo. Ebbene, la prima cosa chiara è che alla luce della drammatica sovracapacità produttiva di auto in Europa, il salvataggio di Stato della Peugeot aumenterebbe enormemente la pressione sui concorrenti più deboli e in particolare su quelli - come la Fiat - molto dipendenti dal mercato europeo e nazionale per le proprie vetture di dimensioni medio-piccole. Con i capitali freschi (cioè dei contribuenti francesi e della Cina) la Peugeot può certamente rinviare la chiusura dei 10 stabilimenti europei che dovrebbe dismettere, ma così facendo peggiorerebbe ulteriormente l'ingorgo produttivo che sta schiacciando tutti i produttori del continente. Secondo gli ultimi calcoli degli esperti, circa il 60% delle fabbriche europee di auto stanno ora lavorando a circa il 70% della capacità, con punte anche inferiori per alcune case: nel 2011, solo il 40% delle fabbriche produceva sotto il 70%.

Questa situazione è ben nota a tutti e soprattutto a Sergio Marchionne. Quando la Fiat aveva la presidenza della Federazione europea dell'auto, il manager Fiat cercò di spingere la Federazione a trattare con Bruxelles un piano di intervento sulla sovrapproduzione in Europa, così da evitare scorciatoie alla francese o una spirale di tensioni sociali. Fu inutile: la proposta fu bloccata (guarda caso) da tedeschi e francesi.

Che succederà, dunque? Se il deal francese andrà in porto, gli altri produttori dovranno trovare rapidamente strade alternative: fusioni o trasferimento all'estero. Su questi temi è facile scegliere le scorciatoie, scivolando su posizioni moralistiche. Ma oltre a quello di mercato, occorre esaminare realisticamente il problema fiscale, inserendolo in quello delle "convenienze". Un problema che riguarda tutti, imprese e contribuenti. Si dirà: la Fiat se ne va in America o in Olanda, e noi paghiamo la Cassa Integrazione. Già, ma la Cig è una misura sociale per evitare i licenziamenti. Va a beneficio dei lavoratori, non delle aziende. Anche se tutti siamo indignati lo stesso. Ma con l'indignazione non si risolvono i problemi e non si fa avanzare il Paese. È compito del governo, dei partiti, delle istituzioni creare il miglior humus di convenienze. Altrimenti non faremo altro che indignarci, oppure gridare inutilmente contro la mondializzazione.

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