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Olimpiadi Sochi, hockey: Russia-Usa, una sfida oltre lo sport

«Non possiamo vivere sugli allori dell'Urss», disse quattro anni fa Dmitrij Medvedev, allora presidente: la prestazione del suo Paese a Vancouver 2010 era stata la peggiore di sempre ma la sconfitta piu bruciante, a causa della quale Medvedev cancellò il viaggio in Canada per seguire la cerimonia di chiusura delle XXI Olimpiadi invernali, fu l'eliminazione dal torneo di hockey per mano dei canadesi, i campioni olimpici. La conferma di un declino iniziato a Lillehammer 1994, quando per la prima volta la Russia si presentò con il suo nome ritrovato. Prima, a partire dal debutto olimpico a Cortina nel 1956, l'Unione Sovietica non aveva tradito l'oro dell'hockey quasi mai, lasciandolo agli americani padroni di casa soltanto nel 1960 a Squaw Valley e nel 1980 a Lake Placid. Poi venne l'oro di Albertville 1992, dove i russi - un anno dopo la fine dell'Urss - si presentarono come Comunità di Stati indipendenti. Non vinsero più.

Le Olimpiadi di Sochi, si è detto più volte, sono state volute per dimostrare le nuove capacità imprenditoriali e organizzative della Russia di Vladimir Putin. Ma un'altra prova decisiva è la capacità di prendersi una rivincita sportiva. E la prima tra tutte le gare, il primo tra tutti i confronti, è quello con gli Stati Uniti nel grande Bolshoj, lo stadio dell'hockey.
Quella di oggi pomeriggio (ore 16.30, 13.30 per l'Italia) è ancora soltanto una delle partite della prima fase, ma è come se fosse già la finale. Caricata fin troppo facilmente di tutto il peso dell'eterno confronto tra russi e americani. Che a dire il vero a Sochi, in questi giorni di Olimpiadi, si stanno scambiando particolari attenzioni, a partire da Putin che venerdì si è intrattenuto a sorseggiare vino rosso con i dirigenti statunitensi a Casa Usa. I russi sembrano ansiosi di trattare con particolare riguardo una presenza considerevole di turisti e rappresentanti dei media, è forse soprattutto davanti a loro che ci tengono a fare "bella figura" nell'organizzazione dei Giochi e nella gestione della sicurezza. Ed è soprattutto loro, gli americani, che i russi vogliono battere.

Oggi è la "sbornaja", la Nazionale, un tempo la chiamavano la Grande macchina rossa. Che la sera del 23 febbraio 1980, a Lake Placid, si trovò di fronte una squadra di amatori. Nessuno dubitava che fossero i sovietici i favoriti. E invece furono gli americani a vincere, 4 a 3, impresa immortalata nel film "Miracle on Ice": «Sì, fu un miracolo - dice oggi Vladislav Tretiak, il portiere di quella sera e ora presidente della Federazione russa - fu una buona lezione che gli americani ci insegnarono». Mai sottovalutare il tuo avversario: difficile che avvenga oggi. Come osserva l'allenatore della "sbornaja", Zinetula Biljaletdinov, «questi sono tempi nuovi, nuove squadre, un nuovo gioco». Gli eroi della Macchina rossa di oggi, figli degli anni 90, ricordano forse a mala pena l'ultimo oro di Albertville, ma conoscono bene i loro avversari perché è al loro fianco che competono durante l'anno. Sedici atleti sui 25 della squadra russa di hockey giocano nella Nhl, la lega dei professionisti americani, gli altri vengono dalla Kontinental League creata a sua immagine in Russia. «È come giocare con tuo fratello», dice Dan Bylsma, l'allenatore degli Usa.

E il primo tra i fratelli è Aleksej "Alex" Ovechkin, 35 anni, il capitano dei Washington Capitals che non seppe reagire bene alla sconfitta di Vancouver. «Tutto il resto è amarezza», disse. Al Bolshoj del ghiaccio tutti gli occhi saranno soprattutto su di lui, e su Evghenij Malkin dei Pittsburgh Penguins, sul capitano Pavel Datsyuk, Detroit Red Wings.
Giocano in America, ma il loro Paese è qui: «La pressione è enorme - ha detto nei giorni scorsi Datsyuk - non avremo il diritto di sbagliare». Gli eroi di un tempo, i veterani della Macchina rossa, hanno indirizzato loro una lettera aperta: «L'intero Paese vi guarderà - hanno scritto - non deludete la Russia. Noi abbiamo dato gloria all'Urss».

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