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Questo articolo è stato pubblicato il 15 febbraio 2014 alle ore 10:36.

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(Afp)(Afp)

Si fa presto a dire ritiro. Se riportare a casa i 4.200 militari che fino a un anno or sono costituivano il contingente italiano in Afghanistan è tutto sommato agevole, grazie all'impiego di velivoli passeggeri civili noleggiati dalla compagnia aerea Meridiana, non altrettanto si può dire per mezzi, materiali ed equipaggiamenti. Da quando è iniziato il progressivo ridimensionamento del contingente, i reparti logistici a Herat e la Task Force Air nella base istituita negli Emirati Arabi Uniti all'aeroporto di al-Batin e nel porto di Jebel Alì, lavorano a pieno ritmo per far rientrare migliaia di tonnellate di materiali. Dei 2 mila militari italiani ancora presenti a Herat ne resteranno a fine anno (quando si concluderà la missione militare Isaf) non più di 800/900, necessari a dar vita all'Operazione Resolute Support con cui la Nato intende continuare ad appoggiare per almeno tre anni, con istruttori e consiglieri militari, le forze di Kabul.

Un'operazione a cui hanno aderito, oltre agli Stati Uniti che metteranno il grosso dei 10/12 mila militari previsti, anche Germania e Italia che manterranno le basi occupare attualmente a Mazar-i-Sharif ed Herat schierandovi contingenti inferiori ai mille militari per un costo annuo stimato per l'Italia in 250/300 milioni di euro annui, mentre l'attuale missione raggiunse nel 2011, anno di massima espansione del contingente a Herat, il picco di spesa di 811 milioni. Nella grande base di Camp Arena, all'aeroporto di Herat, sono allineati 10 chilometri di mezzi e container da riportare in Italia (altri 3 chilometri lineari sono già stati rimpatriati) a cui dovranno aggiungersi una ventina di elicotteri e droni Reaper attualmente impiegati sui cieli afghani, ma che potrebbero in parte restare in Afghanistan in appoggio alla nuova missione. Il futuro della presenza militare italiana e alleata in Afghanistan non è ancora definito e dipenderà dalla firma o meno del trattato sulla sicurezza (Bilateral Security Agreement) tra Washington e Kabul che il presidente afghano Hamid Karzai rifiuta di sottoscrivere, rimandando l'onere al suo successore che verrà eletto nella tarda primavera.

L'Operazione denominata "Itaca 2", così la Difesa ha chiamato lo sforzo logistico per riportare a casa mezzi e materiali del valore di alcuni miliardi, si presenta come una delle più complesse dell'ultimo dopoguerra, ancor più complicata dell'Operazione Itaca che nel secondo semestre del 2006 vide il ritiro del contingente dall'Iraq. In quell'occasione materiali per 11 mila metri lineari vennero trasportati via terra, con l'ausilio di convogli di mezzi civili, da Nassiryah fino al porto di Kuwait City, lungo l'ampia autostrada che attraversa il sud dell'Iraq. Le rotte di uscita dall'Afghanistan, Paese privo di sbocchi al mare, sono invece prettamente aeree, anche perché l'ipotesi di attraversare con convogli terrestri i confini pakistani per raggiungere il porto di Karachi è resa impraticabile dalla massiccia presenza talebana.

Container e veicoli militari italiani vengono quindi imbarcati sui grandi aerei cargo Ilyushin 76 e Antonov 124 noleggiati da compagnie russe e ucraine, affiancati per i trasporti meno impegnativi dai cargo dell'Aeronautica Militare C-130 e C-27J che raggiungono gli aeroporti di al-Batin e al Maktoum (vicino ad Abu Dhabi), dove i materiali vengono sbarcati e stoccati nel porto di Jebel Alì, in attesa di essere imbarcati su due navi italiane che in media ogni mese e mezzo giungono a caricare. La Difesa prevede saranno necessari una decina di viaggi per riportare a casa tutti gli equipaggiamenti presenti in Afghanistan. Il criterio adottato è delicato perché deve coniugare l'esigenza di rimpatriare i materiali con la necessità di lasciare a Herat quanto necessario a far operare al meglio le forze ancora presenti, garantendo mobilità e sicurezza al contingente.

L'impiego degli aerei cargo fino al Golfo Persico e da lì delle navi civili noleggiate comporta costi elevati, stimati dallo Stato Maggiore Difesa in circa 100 milioni di euro, che potrebbero aumentare di circa il 20 per cento in caso di annullamento dell'operazione «Resolute Support» e venisse attuata la cosiddetta opzione zero che prevede il ritiro di tutte le forze alleate (e quindi anche italiane) dall'Afghanistan entro dicembre.
Una sensibile riduzione dei costi si potrebbe ottenere utilizzando la cosiddetta "rotta nord", portando quindi i materiali da rimpatriare in Kazakhstan con gli aerei per poi farli arrivare in Italia via treno attraverso Russia, Ucraina, Ungheria e Slovenia. La "rotta nord" al momento non è attiva nonostante gli accordi stipulati da Roma con i governi di Uzbekistan e Kazakhstan che prevedeva anche l'uso gratuito della grande base aerea kazaka di Shymkent.

L'intesa siglata un anno or sono dal Ministro della Difesa Giampaolo Di Paola è al momento "congelata" a causa degli strascichi nei rapporti tra Roma e Astana, determinati dal caso Shalabayeva. La progressiva ricomposizione della frattura tra i due Paesi potrebbe consentire di aprire questa rotta per il deflusso dei materiali militari meno sensibili attraverso il più economico trasporto ferroviario (poco più di 10 mila dollari a container contro gli oltre 30 mila richiesti per il trasporto aereo) anche se armi, munizioni, equipaggiamenti elettronici e materiali coperti da segretezza continueranno a raggiungere l'Italia direttamente in aereo o via nave dagli Emirati.

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