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Questo articolo è stato pubblicato il 08 marzo 2014 alle ore 17:28.
L'ultima modifica è del 08 marzo 2014 alle ore 17:59.

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RIKUZENTAKATA - A tre anni dallo tsunami dell'11 marzo 2011 che provocò quasi 20mila vittime e distrusse oltre 400mila case, nel Nord-est del Giappone il simbolo della speranza e della voglia di ripresa è il "pino miracoloso" di Rikuzentakata, l'unico rimasto di una pineta di 70 mila alberi piantata nel corso degli ultimi tre secoli e mezzo proprio per fare da barriera naturale contro le forze distruttrici della natura. Quello che resta oggi, però, è il tronco e una replica esatta di rami e foglie: un anno dopo lo tsunami, il pino era stato dichiarato "morto", ma è stato preservato per quanto possibile grazie a un trattamento costato oltre un milione di euro finanziato da donazioni interne e internazionali. A Rikuzentakata - cittadina completamente distrutta della provincia di Iwate - è stato lasciato com'era, a simbolo e monito, anche il grande edificio Tapic 45, già centro di informazioni, davanti al quale è stato posto un memoriale per le vittime: questa struttura rappresentò la salvezza per 5 persone che riuscirono a salire fino in cima, sfuggendo alle onde alte quasi 14 metri.

Rikuzentakata è il posto dove sta andando in scena un esempio di economia keynesiana, sia pure nobilitata da un obbligo morale: per una popolazione calata di 2mila unità sotto le 20 mila e pronosticata in ulteriore netta diminuzione nei prossimi anni, si sta costruendo una gigantesco nastro trasportatore che porterà terra dalla montagna alla pianura per alzare il livello del terreno di 8 metri prima di iniziare la ricostruzione delle case. Lavori pubblici con una spesa ingente - alla quale si aggiunge la realizzazione di una barriera anti-tsunami alta 12,5 metri , che a Tokyo lascia alcuni perplessi e convinti che sarebbe meglio spendere denaro pubblico in un rapporto più ampio tra costi e benefìci.

La ricostruzione delle case procede a rilento in quasi tutto il Tohoku: mentre ci sono ancora 267mila sfollati (molti dalla provincia di Fukushima), circa 100mila persone restano a vivere in prefabbricati temporanei nei quali avrebbero dovuto stare per un massimo di due anni. Tra i motivi dei ritardi, c'è la democrazia. Tante discussioni infinite e in alcuni paesi non si è ancora raggiunto un consenso su dove costruire: se più in alto, come sollecita il governo centrale, o dove si stava prima al livello del mare. Pesano poi i complessi rapporti tra l'amministrazione centrale e quelle provinciali e comunali, oltre alla estrema difficoltà tutta giapponese nell'espropriare terreni se anche un solo piccolo proprietario si oppone.

A Morioka, capoluogo di Iwate, il governatore Takuya Tasso ammette che oggi c'è un boom delle costruzioni, che potrebbe essere anche maggiore se non fosse frenato da carenze di personale e materiali. Ma è un boom che da solo non basterà, aggiunge: occorre predisporre le basi per una crescita sostenibile dell'economia locale. Ci sono già i primi segnali di timida diversificare da agricoltura, pesca e costruzioni verso il turismo, con i primi voli charter internazionali. Alla domanda se non sia meglio chiede al governo di allargare le maglie dell'immigrazione visto che mancano manovali e muratori al punto che varie gare d'appalto vanno deserte, Tasso dice di averne parlato con le imprese edilizie locali, che però non li desiderano perché non saprebbero come gestirli. Insomma nel Nord-est del Giappone prima non c'era lavoro, adesso mancano i lavoratori. Visto il boom delle costruzioni in corso anche a Tokyo (che rafforzerà con la preparazione delle Olimpiadi 2020), il governo giapponese è stato costretto a mettere allo studio la possibilità di accogliere più immigrati. Chissà, potrebbe essere questo un incredibile effetto collaterale postumo della devastazione da tsunami.

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