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Questo articolo è stato pubblicato il 12 marzo 2014 alle ore 06:41.
L'ultima modifica è del 12 marzo 2014 alle ore 06:55.

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e Alessandro Graziani
«È a novembre che ho iniziato a pensarci, di ritorno da un incontro in Bankitalia. Tra l'asset quality review in arrivo e i primi segnali di ripartenza del ciclo economico anche in Italia – spiega il ceo di UniCredit Federico Ghizzoni – ci voleva una scelta coraggiosa».


«Sono molto soddisfatto che il consiglio abbia capito e appoggiato questa linea, ma la responsabilità è mia, la faccia so bene di mettercela io». È questa la genesi di un piano che Ghizzoni non esita a definire «spartiacque» per il gruppo che guida da tre anni e mezzo. Perché parte con un bilancio, quello 2013, tinto di un rosso che non si era mai visto in UniCredit ma al tempo stesso si pone obiettivi ambiziosi, in termini di redditività ma anche di business: «Puntiamo a a tornare all'utile in Italia già dal 2014, a consolidare la nostra leadership europea nel corporate and investment banking e a mantenere saldamente il coverage ratio, il livello di copertura sui crediti, ben oltre il 50%, vale a dire sui valori pre-crisi».
Il gruppo parte però da una pulizia radicale, da 15 miliardi tra rettifiche e accantonamenti. Siamo sicuri che sia l'ultima volta?
Deve esserlo, per forza. Ma abbiamo ragionevoli elementi per crederlo perché abbiamo condotto un'analisi severa. Da novembre, da quando abbiamo iniziato a lavorare sul piano, i nostri risk manager hanno passato al setaccio tutte le nostre posizioni creditorie, le garanzie sul real estate sono state riviste secondo il criterio della vendita forzata e gli accantonamenti che abbiamo postato sono stati effettuati sulla base di parametri estremamente prudenziali.
Ma si dà per scontato che la ripresa si consolidi.
È vero, ma anche qui ci siamo basati sulle previsioni meno ottimistiche, con ulteriori correzioni al ribasso. Per l'Italia, ad esempio, per il 2014 prevediamo una crescita del Pil solo dello 0,6%, che è un valore più contenuto anche di quello atteso dai nostri economisti.
Perché la scelta di creare una bad bank interna?
Non è una bad bank, piuttosto una divisione interna che ci occuperà solo dei crediti deteriorati o problematici italiani, di cui peraltro renderemo conto trimestralmente. Tutto il restro della banca, invece, si concentrerà sui crediti buoni, quelli vecchi e quelli nuovi.
A proposito: proprio ieri il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha auspicato che la banca, più solida, sia capace di un'offerta di credito in linea con le richieste dell'economia reale. Ce la farà?
È s scritto nel piano: puntiamo a una crescita media degli impieghi del 4,5% annuo, per un ammontare vicino agli 80 miliardi di nuovo credito s.
Tornando ai crediti deteriorati: la vostra divisione interna è funzionale a possibili iniziative di sistema?
Due anni fa, io stesso mi ero attivato per vedere se c'erano le premesse per costituire una bad bank che vedesse le varie banche italiane azioniste di minoranza, ma non ce n'erano le premesse. Per questo ci siamo attivati al nostro interno, con la segregazione dei crediti deteriorati, con l'attività su Ucmb e con il progetto con Kkr e Intesa.
A che punto è?
Stiamo lavorando sulle tecnicalità, che sono molte e molto complesse. L'impianto, comunque, è sostanzialmente condiviso: l'idea è quella di costituire un fondo, di cui Kkr avrà la maggioranza, dove conferire esposizioni debitorie da trasformare in equity.
Quando contate di chiudere il negoziato su Alitalia con Etihad?
Credo che ormai sia questione di un paio di mesi al massimo.
Tutto il debito verrà rinegoziato?
No. Etihad non ci ha chiesto di rinegoziare le utlime tranche concesse dall'autunno a oggi.
Un'altra partita delicata è quella di Sorgenia. Si troverà un accordo?
Penso di sì: personalmente, se mi siedo a un tavolo è perché credo che si possa approdare a una soluzione.
Anche in Rcs la tensione sembra crescente.
Credo, e auspico, che prima o poi John Elkann e Diego Della Valle riescano a confrontarsi in modo costruttivo.
Tornando a voi: nel piano sono previsti oltre 8mila esuberi, di cui 5.700 in Italia. I sindacati non l'hanno presa benissimo.
Se guardo all'Italia, 4.500 uscite saranno prepensionamenti, i primi che torneremo a fare dopo l'interruzione dettata dalla riforma Fornero. Ciò che mi dispiace, in realtà, è che prima o poi vorrei assumere dei giovani ma per ora non è possibile: pensi che grazie all'attuale quadro normativo tra i 50mila addetti che abbiamo in Italia nel 2014 solo poche unità matureranno i requisiti per la pensione.

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