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Questo articolo è stato pubblicato il 12 marzo 2014 alle ore 06:41.
L'ultima modifica è del 12 marzo 2014 alle ore 06:54.

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Un bilancio di «svolta», avevano lasciato intendere nei giorni scorsi da UniCredit. E così è stato: il gruppo guidato da Federico Ghizzoni ieri ha annunciato che il 2013 si è chiuso in rosso per quasi 14 miliardi, dopo un'ondata staordinaria di svalutazioni e rettifiche che di fatto rappresentano la base per un piano industriale al 2018 ispirato al principio della redditività «sostenibile». Per i soci, chiamati in assemblea il 13 maggio, UniCredit proporrà all'assemblea di maggio uno script dividend di 0,1 euro (superiore ai 9 centesimi del 2018): lo strumento, approvato l'anno scorso in assemblea, garantirà maggiori vantaggi, di natura fiscale,per chi opterà per l'erogazione della cedola in azioni, ma sarà possibile ottenere anche un versamento in contanti. Esclusa, invece, la remunerazione dei cashes.
Piazza affari ha reagito più che bene (il titolo UniCredit ieri ha chiuso a +6,2%), un po' perché ha visto scampato il pericolo dell'aumento di capitale, opzione a quanto pare mai concretamente sul tavolo, un po' perché nel piano industriale si parla di ritorno immediato all'utile (2,9 miliardi a fine 2014, 7,5 nel 2018) e di massima concentrazione sul fronte dei costi, a partire dal taglio di 500 filiali al 2018 fino alla riduzione di 8.500 dipendenti di cui 5.700 nel nostro Paese, un elemento che – cinicamente – trova spesso un riscontro positivo sul mercato ma che al contrario ha destato l'immediata reazione dei sindacati, con un coro di "no" che si è levato da tutte le principali sigle. «I numeri dichiarati non rappresentano il presupposto per una trattativa seria, improntata a un dialogo costruttivo tra le parti, né fanno pensare a un rilancio dell'azienda», ha dichiarato Mauro Morelli, Segretario nazionale della Fabi.
I conti del 2013
Punto di partenza, si diceva, sono i conti del 2013 insieme ai segnali di ripresa che arrivano ormai anche dall'Italia (si veda l'intervista nella pagina a fianco). Così, se a fine settembre il gruppo aveva messo da parte quasi un miliardo di utili, a fine anno invece segna perdite per 14 miliardi, frutto di a svalutazioni su avviamenti per 9,3 miliardi e accantonamenti su crediti per 13,7 miliardi (di cui 7,2 straordinari). Una vera e propria cura da cavallo, che non intacca in modo significativo i ratio patrimoniali (è al 9,4% il Common equity tier 1 anticipando pienamente gli effetti di Basilea 3) e al termine della quale tuttavia il rapporto di copertura dei crediti deteriorati del gruppo va al 52%, tornando a valori pre-crisi, di gran lunga «il più elevato in Italia e tra i migliori in Europa», come sottolinea il gruppo.

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