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Questo articolo è stato pubblicato il 14 marzo 2014 alle ore 10:53.

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Abdelaziz Bouteflika (Afp)Abdelaziz Bouteflika (Afp)

Con un filo di voce quasi impercettibile ha annunciato qualche giorno fa la candidatura per il quarto mandato alle elezioni del 17 aprile. Abdelaziz Bouteflika, 77 anni, ministro degli Esteri la prima volta a soli 26 anni nel 1963, uscito l'anno scorso con serie menomazioni da un attacco ischemico, diventerà con ogni probabilità per la quarta volta presidente dell'Algeria, 38 milioni di abitanti di cui la metà sotto i 30 anni.

Al potere dal 1999, Bouteflika è il leader algerino rimasto più a lungo al potere dopo l'indipendenza dalla Francia raggiunta nel 1962 al termine di una sanguinosa guerra di decolonizzazione: oggi, insieme al ben più giovane Bashar Assad in Siria, è anche l'unico raìs del mondo arabo in sella dopo le primavere che hanno travolto Ben Alì, Gheddafi e Mubarak. Ma come dice il suo ministro degli Esteri Ramtane Lamamra, che una settimana fa incontrato la collega italiana Federica Mogherini, "la primavera araba non esiste, la respingo pure come definizione".

L'effetto domino delle rivolte arabe in Algeria è stato subito contrastato nel gennaio 2011 con un mix di misure sociali e generosi sussidi, finanziati dall'export di idrocarburi, distribuiti a pioggia a giovani e disoccupati, il tutto accompagnato da una repressione capillare di ogni tentativo di sovversione. Quello algerino è un apparato di sicurezza duro e occhiuto che ha stroncato l'ondata islamica nel decennio degli anni'90: oltre 150mila morti e quasi 10mila desaparecidos. Corano e Metano qui si sono affrontati in una lotta senza quartiere e ora vengono spazzate via senza troppi complimenti sia le manifestazioni di protesta per la quarta candidatura di Bouteflika che le speranze degli altri cinque concorrenti alla presidenza, tra i quali l'ex premier Alì Benflis.

Il denaro per comprare il consenso non manca. Grazie al petrolio e soprattutto al gas, l'Algeria - con la Russia il principale fornitore italiano - è dopo l'Arabia Saudita, il Paese del mondo arabo con le maggiori riserve valutarie: oltre 190 miliardi di dollari, il corrispettivo di tre anni di importazioni. L'Italia dopo la Spagna rappresenta il secondo cliente di Algeri (9 miliardi di dollari di importazioni nel 2013) e il terzo esportatore (5 miliardi di dollari) dopo Cina e Francia. Un cordone ombelicale lega la sponda algerina a quella siciliana: il gasdotto del TransMed, mentre la società petrolifera statale Sonatrach dai tempi di Mattei è un'alleata storica dell'Eni, nonostante gli scandali recenti legati alla Saipem.
L'Algeria appare dunque un Paese stabile ma anche immobile. Intorno a Bouteflika c'è una sorta di cortina di ferro costituita dai fedelissimi del Fronte di liberazione nazionale (Fln), l'ex partito unico, dai generali delle Forze Armate, dai servizi di sicurezza e intelligence (Drs) comandati dall'eterno Mohammed "Toufik" Medienne, ufficiale addestrato dall'ex Kgb e portabandiera degli "sradicatori" che fecero fuori con metodi assai discutibili i gruppi islamici.

A dirigere la campagna elettorale del presidente è il primo ministro Abdelmalek Sellal, che si è dimesso ieri per lasciare il posto a Youcef Yousfi ministro dell'Energia che in passato ha diretto anche la Sonatrach, cuore pulsante dell'economia. Se Bouteflika non potesse condurre in porto il mandato a sostituirlo dicono che sia pronto Ahmed Ouyahia, ex premier, anche lui della cerchia aggrappata al vecchio elader.
Questo è "Le Pouvoir", come chiamano gli algerini il sistema di potere, una rete palese e occulta di interessi spartiti tra generali, politici, lobby e grandi famiglie. "I partiti _ dice Rashid Tlemcani, professore alla Facoltà di Scienze politiche di Algeri _ sono una sorta di vetrina della democrazia: ma i manovratori stanno dietro le quinte. Ogni tanto tra gli insider muta qualche nome ma la colonna vertebrale rimane intatta".
Per capire perché tutto intorno cambia ma non in Algeria occorre fare qualche un passo indietro nel tempo e addentrarsi nella Casbah. Qui, entrando in quello che fu il fondale realistico della "Battaglia d'Algeri" di Gillo Pontecorvo, nei vicoli stretti dove passo dopo passo lucide targhe d'ottone ricordano le scene madri della pellicola, sono confluiti i massacri del passato anti-coloniale e degli anni'90: dai regolamenti di conti tra le fazioni dell'Fln alla caccia spietata ai collaborazionisti dei francesi, gli "Harkis". Un milione di morti costò l'indipendenza.

E nella Casbah, dopo il colpo di stato del ‘92 dei generali, cominciò un'altra mattanza: in Algeria venivano uccisi giornalisti, intellettuali, scrittori, artisti, ingegneri, tecnici, operai, impiegati pubblici e chiunque potesse rappresentare un bersaglio. Non tutti massacrati dagli islamisti, una buona parte fatti fuori in una guerra sporca dove le forze di sicurezza punivano la popolazione che aveva votato e sostenuto l'ascesa del Fronte islamico di salvezza, vincitore del primo turno delle elezioni nel dicembre del '91.
Questa è stata l'Algeria degli anni di piombo. Si può ben capire perché l'opposizione sia debole, quanto pesino ancora i ricordi di quel regno del terrore, come mai qui i partiti islamici, che si sono affermati nel resto del Nordafrica, non abbiano la stessa fortuna: sono divisi, senza una leadership e si trascinano comunque le memorie incancellabili di un decennio di sangue. La gente continua ad avere paura di un possibile ritorno a un passato sanguinoso e su questo contano Bouetflika e Le Pouvoir per restare padroni della situazione.

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