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Questo articolo è stato pubblicato il 16 marzo 2014 alle ore 19:31.
L'ultima modifica è del 17 marzo 2014 alle ore 14:13.

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In Russia, dunque. La differenza tra i quesiti nella scheda elettorale era soltanto nel tipo di strada da seguire. La prima diretta, annessione della Crimea alla Russia, la seconda un po' più lunga perché passava per una fase di autonomia con il diritto di scegliere da che parte andare. Ed è fin troppo chiara la direzione in cui intende andare il nuovo governo di Aksjonov, installato il 26 febbraio scorso sotto lo sguardo vigile dei kalashnikov filorussi.
«Non ho capito, devo scrivere sì o no?», chiedeva un veterano da dietro la tenda del seggio di Novenke, la Casa della cultura dove, domenica, la bandiera era ancora quella ucraina. «Scrivi sì, naturalmente», gli suggerisce Ekaterina Makonechnaja, presidente del seggio che come tanti vive questo come il giorno del ritorno a casa: «Noi dalla Russia non siamo mai andati via», dice, annullando in un istante il dono che Kruscev fece all'Ucraina nel 1954.

Il ministero della Difesa ucraino e quello russo, accanto al comando della Flotta del Mar Nero di Sebastopoli, hanno annunciato una tregua fino al 21 marzo, fino ad allora le unità militari ucraine in Crimea non saranno toccate. Tre giorni di tempo per compiere la scelta più difficile di un soldato: mantenere il giuramento fatto, o cambiare bandiera.

Nella base militare di Bakhchisaraj la bandiera è già cambiata, e non solo quella. Un soldato si arrampica a sistemare bene il tricolore russo sul cancello, i suoi compagni lo guardano. Siete liberi di uscire? Scuotono la testa. Sono i militari che non hanno voluto giurare fedeltà alla nuova Autonomia di Crimea, il passaggio intermedio che dovrebbe portare alla Russia. Un'anziana donna tartara, Aisha, vuole farsi sentire. E' appena stata nella base a portare del caffè al figlio: «Sono come prigionieri - grida furente - li seguono con le armi fino in bagno».
Dal 12 marzo la base di Bakhchisaraj ha un nuovo comandante, Aleksandr Antufiev. Chiarisce subito da che parte sta: "Voi giornalisti li chiamate aggressori, ma per la gente i russi sono forze di pace - dice -. Oggi è un giorno di festa". Dice di rispettare la decisione dei militari rimasti fedeli all'Ucraina, nella base sono ancora in 15: "Per un militare questo è un passo serio, li rispetto e stringerò loro la mano quando lasceranno pacificamente il territorio". La stima che dichiara per Vladimir Putin nasce dal fatto che il presidente russo "ha fatto rivivere il senso dello Stato, che in Ucraina non c'è. Qui c'è solo la lotta tra clan per spartirsi le risorse".
Dentro la base, il colonnello Serghej Gunder è il più alto in grado tra i militari rimasti fedeli a Kiev: "Domani cercheranno di cacciarci - dice chiarendo che sono russe, e non lo nascondono, le forze che hanno ora il controllo della base - ma il morale è buono. Kiev non ci ha abbandonati, ci hanno detto di tenere duro finché non saranno chiare le intese politiche". Spiega che nel gruppo che ha rifiutato federltà alla nuova Crimea ci sono ucraini e tartari, ma anche russi: "Per me il giuramento è il mio onore, resta per sempre".
Quelli che sono passati dall'altra parte, dice Emil Bilalov, sono stati costretti. La sua famiglia è tornata anni fa a Novenke dall'Uzbekistan, dove era stata deportata da Stalin. Per i tartari di Crimea il referendum "tra virgolette" che vorrebbe riconsegnarli alla Russia non ha alcuna legittimità, al seggio di Novenke a votare sono andati solo in quattro: eppure qui nella regione di Bakhchisaraj, l'antica capitale tartara, sono la maggioranza. "Gli hanno dato dall'alto l'ordine di boicottare, sono ben organizzati", taglia corto Ekaterina Makhonechnaja. Ma poco lontano, nella casa di Emil, la famiglia di Bilalov ha paura. "Arriverà anche qui la dittatura di Putin - dice Emil - se ne pentiranno, questi". Ogni sera i tartari del villaggio si riuniscono alla moschea, organizzano ronde per le strade. Le donne della famiglia, e i bambini, sono stati mandati insieme a tanti altri nelle regioni occidentali dell'Ucraina. E in casa è rimasta solo la madre, Narie. "Questa è la nostra patria storica", ripete.
"Se i russi si comportano così con i loro fratelli ucraini, con noi musulmani che faranno?", si chiedono i Bilalov. Con la deportazione che brucia ancora la loro pelle, e che ha segnato la loro generazione, non riescono più a credere alle promesse. "Vogliono prendersi la Crimea ma sono una minaccia per tutta l'Europa - ripetono -. Dicono di dover difendere i russi ma da chi? Parlano di fascisti nell'Ovest dell'Ucraina, ma il vero fascismo è nelle strade di Mosca, quando picchiano e arrestano i dimostranti". A Bakhchisaraj, nella sede del partito dei vincitori, "Unità russa", il volontario delle milizie di autodifesa Pavel Shperov alza le spalle: "Anche i tartari alla fine prenderanno il passaporto russo, con tutti i vantaggi che dà". Shperov è di ottimo umore, anche per lui che non ha mai buttato via il passaporto sovietico oggi è un giorno di festa. "Quando abbiamo visto la bandiera russa sul parlamento di Simferopoli - dice - abbiamo capito che era fatta". E ora, è convinto, succederà lo stesso anche nell'Est dell'Ucraina: "I fascisti non li vuole nessuno". Domenica sera, da Kharkiv, è arrivata la notizia dell'ennesimo scontro tra nazionalisti ucraini e militanti russi, che hanno fatto irruzione in un istituto culturale per poi mettersi a bruciare, in falò per strada, libri in lingua ucraina.

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