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Questo articolo è stato pubblicato il 18 aprile 2014 alle ore 06:38.

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PIOMBINO(Li). Dal nostro inviato
Piombino è una città ormonalmente operaia, l'acciaieria è una persona di famiglia, una specie di slittamento antropomorfo, la fabbrica-progenitrice che, come la dea Uni-Era amata dagli Etruschi, dispensa gioie e sacrifici. L'onomastica non tradisce neppure questa volta, il nome originario della Lucchini era Ilva, a sua volta l'appellativo latino dell'Elba, l'isola innervata di ferro staccata solo da qualche miglio marino da Piombino, in una successione scenografica di una bellezza imbarazzante. Una dopo l'altra si sgranano il Giglio, Capraia, Pianosa e, all'estremità settentrionale della Corsica, Cape Corse. Scorci omerici al di là di Piazza Bovio, una specie di prua piantata sul Tirreno.
Furono gli Etruschi i primi a inventare un rudimentale altoforno per domare il ferro. E Piombino fu terra sacra degli Etruschi che a pochi chilometri dall'Ilva fondarono Populonia e scavarono le necropoli di Baratti. Il parco archeologico di centinaia di ettari scivola verso un'insenatura sul mare punteggiata di pini marittimi secolari, un compendio irripetibile del paesaggio italiano. Se da un lato la pigrizia dei piombinesi e la monocultura dell'acciaio l'hanno preservato dalle speculazioni, dall'altro hanno impedito che i sindaci si battessero per ottenere il sacrosanto riconoscimento di sito Unesco. Ma i colpi a vuoto di questa città operaia (2.200 dipendenti diretti e altrettanti nell'indotto) sono come le cariche in bianco che tra la notte tra il 22 e il 23 aprile riempiranno di aria le viscere dell'altoforno prima dello spegnimento definitivo. Un lutto collettivo, l'epilogo di una storia cominciata nel 1866, quinto compleanno dell'unità d'Italia, quando Jacopo Bozza assolda settanta detenuti e fonda la ferriera Perseveranza, rimpiazzata nel 1911 dal consorzio Ilva. S'inaugura il secolo breve e gli operai piombinesi fondono la ghisa con la quale si costruiranno migliaia di chilometri di linee ferrate. Il Novecento italiano si muove sui binari dell'Ilva e sulle automobili della Fiat, così come nell'Ottocento le centinaia di piroscafi della flotta palermitana dei Florio imbarcarono alla volta delle Americhe milioni di migranti. Due guerre, il fascismo e il boom industriale corrono su queste linee rette e traslucide.
A Piombino lo sanno e ci costruiscono una mitologia tramandata da padre in figlio. L'Ilva cambia nome e proprietà quasi una mezza dozzina di volte: Italsider, Lucchini, i russi della Severstal, ma per i piombinesi è sempre uguale a se stessa, forse perché come una madre e un padre devi incrociarne lo sguardo ogni giorno della tua vita. Dal Torrione, il cuore di Piombino, basta imboccare via Carlo Pisacane e percorrere duecento metri: di colpo, come in una sceneggiatura felliniana, tra una schiera di case umbertine, appare come il Titanic un mostro di lamiera pitturato di amaranto. Ottantacinque ettari pieni zeppi di loppa, laminatoi, carbon coke, ciminiere di tutte le fogge e colori che sputano fuoco o nuvole di vapore.
Se non fosse per i pini marittimi e il cielo magrittiano potrebbe essere un paesaggio lunare popolato da siderurgici marziani che, come scrisse Ermanno Rea ne "La dismissione", offrono il petto all'altoforno tra flutti di ghisa rovente. Può morire la fabbrica che attraversa due secoli e due millenni, la storia del fordismo e della manifattura italiana? Luciano Gabrielli, storico segretario della Fiom piombinese, si accovaccia sui banchetti che arredano le due stanzette disadorne che ospitano le Rsu e sibila con voce rauca: «Nell'ottobre del 2008 la fabbrica era spacciata: abbiamo resistito fino a oggi». Il viso di Gabrielli si allarga in un sorriso di compiacimento. Resistere, giorno dopo giorno. E lottare per la sopravvivenza di un'azienda praticamente fallita – è in amministrazione straordinaria – e data per spacciata una decina di volte. Il compagno Graziano Martinelli, un altro delegato della Fiom, l'unico a non aver mai creduto alla favola del sedicente magnate arabo Khaled al Habahbeh, il salvatore del ciclo integrale e dei posti di lavoro, si toglie il cappellino alla Che Guevara e stringe gli occhi come chi si prepara a comunicare una verità cesellata al tornio di tanti corpo a corpo: «Siamo stati abbandonati da tutti. Il sindacato nazionale, il governo, la Regione. I quattro esecutivi che si sono alternati alla guida del Paese nella fase più acuta della crisi non sono stati in grado di elaborare uno straccio di politica industriale, non un'ombra di metodo. L'altoforno ormai è finito. Abbiamo perso, e ora sono disgustato».
Sono frasi, smorfie e critiche di chi è stato risucchiato nell'elaborazione del lutto di una morte annunciata. Come se in un colpo solo gli operai tradissero se stessi e l'intera genealogia dei siderurgici. Il mare, che poi è la genesi dell'acciaieria, appare l'ultima risorsa, ma sembra di ripercorrere una storia consumata da troppe promesse e parole al vento.
Il porto è da anni in attesa di accogliere una commessa salvifica: prima la colmata di Bagnoli, poi la Costa Concordia – in rotta, tranne colpi di scena, verso il porto di Genova o la Turchia – ora il polo di smantellamento delle navi militari. Una materia che dire controversa è poco. Di sicuro c'è solo che al porto, sul quale domina l'ex sindaco di Piombino Luciano Guerrieri, chiamato amichevolmente "mozzarellone" dai sindacalisti, si sta lavorando per scavare i fondali fino a 20 metri, una profondità che avrebbe consentito l'approdo del relitto della Concordia.

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