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Questo articolo è stato pubblicato il 26 aprile 2014 alle ore 13:01.

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C'è tutta una schiera di tecnocrati che ha già vinto. Sono i creatori e i padroni dei Big Data, del calcio tracciato con Gps e grafica tridimensionale, dei metri percorsi palla al piede e della massa grassa bruciata, dei dati sensibili commerciati e spacciati come unica ragione di sopravvivenza del gioco. Alcuni di loro hanno carriere accademiche mirabolanti e propositi rivoluzionari come Aaron Clauset che dall'Università del Colorado ci spiega che in realtà lo sport è una cosa semplice, noiosa e quasi prevedibile e che il momentum, latinismo magico per iniziati, è facile da prevedere se si dispone degli strumenti adeguati. Come in una barzelletta raccontata da Guido Nicheli, buonanima fu Zampetti: corri un tot, ti stanchi un tot, l'altro si stanca un tot ed è fatta, tac! Inutile specificare che Clauset dice di se stesso «I've never really been a sports person», insomma lui lo sport lo analizza, mica lo ama.

C'è il professor Gerard Sierksma che per Sap ha sviluppato un sistema di analisi applicato al soccer che gli permette di riclassificare i tiri in porta: se non segni sono tutti brutti, mica puoi parlare di beautiful shot. Se la palla non entra o non va a un compagno è persa e per le statistiche conta solo quello. Tommaso Finadri, giocatore di football americano e presidente di Beast Technologies ha convinto la Federazione Italiana Giuoco Calcio ad adottare una tecnologia che permette la misurazione delle performance degli atleti. In poche o troppe parole, i calciatori ormai non giocano: funzionano. Poi c'è Tévez.
Carlitos Tévez è un portento che sfugge alle misurazioni e alle dissezioni tecnologiche. Ci sono alani che pensano di essere bassotti e chihuahua convinti di essere leoni. Poi c'è Tévez, che di un corpo abbastanza inadeguato al calcio moderno ha fatto un monumento all'intelligenza tattica e alla perfetta aderenza al terreno di gioco. Tévez corre con la poca grazia di un cavallo da tiro e non cade (quasi mai), copre la palla come un uomo parecchio più grande di lui e la protegge, poi d'improvviso veste il tutù dell'étoile e produce colpi e colpi di genio in sequenza. Come le misuri quelle corse pesanti, la sicurezza portata in dono ai compagni, i palloni difficili ripuliti e consegnati come nuovi? Le sponde sublimi, le torsioni velocissime e quella pancia che nonostante gli allenamenti terribili di Conte non si rassegna, non si arrende e fa capolino da sotto le otto magliette termiche indossate quando fa troppo freddo per esser vero? Mica facile essere Tévez. Sei lì che già un po' ti chiedi perché t'han fatto nascere al Fuerte proprio a te, che in fondo ti interessava solo giocare a calcio con quelli più grandi, cioè quasi tutti perché mamma e papà non ti hanno corredato di una statura di quelle che porti in giro con nonchalance. Carlitos abitava al Nudo 1, palazzaccio brutto vero con i mattoni rossi a vista e le inferriate alle finestre, roba che uno ci tirerebbe fuori articoli sterminati e strappalacrime sulla prigione dentro e fuori. L'inferno delle villas miserias, Ciudadela e la violenza di strada. Facile perdersi e tanti dei suoi amici lo hanno fatto. L'ha fatto Dario Coronel, che era così bravo che lo voleva il Velez e che con Carlitos passava giornate intere a cercare qualcosa di meglio da fare, che poi cosa c'è di meglio del pallone? Dario si è suicidato, al Fuerte morire è una cosa abbastanza semplice, un tempo si moriva di fame o si uccideva per fame, oggi è un po' più un problema di droga ma son dettagli. Come si misurano le giornate di Carlitos a Fuerte Apache? Quale Gps può tracciare la fatica di una scelta troppo dura per un ragazzino, la decisione se continuare a rincorrere il pallone sgonfio o cominciare a fare il delinquente come tutti quegli altri? Quanto valgono quei metri e come si valuta il talento della vita, quello accumulato tra vetri rotti e amici storti, palloni sgonfi e scorciatoie? Si cresce, si sbanda, ci si perde. Non lui, che aveva sempre e solo quel problema lì di trovare un pallone con cui palleggiare e se proprio non ce n'erano in giro palleggiava con una pietra. Così lo trovò El Tano Roberto Propato, una di quelle figure mitologiche del calcio sudamericano che dai barrios pescano campioni.

Cosa fai tu? Io? Cerco campioni in posti assurdi. Bello! Sì, solo che devi uscirne vivo, dai posti assurdi…
Un bambino che palleggia con una pietra mentre gli altri giocano, un cosetto tondo che se ne sta a testa bassa sotto quel casermone su cui ora c'è un ritratto del Tévez giocatore del popolo, chioma folta e cipiglio fiero, ma allora era solo un edificio brutto in un posto brutto e pericoloso. Fuerte Apache perché un giornalista lo trovò così simile alle immagini di un film sul Bronx da mutuarne il nome. Facile scrivere di palazzoni, cocci, amici che si suicidano, abbandono, morte se poi tutto ciò resta lontano, a migliaia di chilometri da una tastiera e dall'infanzia diversa che hai avuto in dono. Difficile se sei Tévez, che tutti quegli ostacoli li ha saltati e quando non ci è riuscito li ha presi nel muso, su quella faccia da ragazzo buono che voleva solo giocare al calcio e che probabilmente di fare il capopopolo se ne fotte pure. Etichette. Mica facile essere Tévez se poi sei non sei nato Tévez ma Martinez e c'è tutto un pasticcio legato a cartellini, trasferimenti e cambi di cognome. Mica facile anche perché poi c'è chi dice che di fatto i tuoi genitori ti hanno abbandonato e sei cresciuto con gli zii, ma son solo cose tristi che nessuno sa veramente e di cui tu, Carlos, non parli. Cresci silenzioso con quella cicatrice brutta sul collo perché a dieci mesi ti è caduta addosso una pentola di acqua bollente. Che poi chi se ne frega della cicatrice e dell'effetto che fa. A Tévez serve da promemoria e da bilancia, a volte ci pesa le persone su quella cicatrice, valuta le loro reazioni e le classifica, in silenzio.

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