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Questo articolo è stato pubblicato il 26 aprile 2014 alle ore 13:00.
L'ultima modifica è del 29 aprile 2014 alle ore 13:33.

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Thérèse Legros è una leggenda del mondo dell'arte. Quasi settantenne, riceve ogni sera nell'immenso appartamento di rue de Castiglione un mix di jet-set globale (Sofia Coppola, Bianca Jagger) e di élite locale (banchieri, avvocati, Sarkozy). Severa, crudele, intelligentissima, in apparenza Thérèse continua a seminare il panico intorno a sé, come ha sempre fatto, tra Parigi, New York e Punta del Este. Dall'interno, però, l'Alzheimer si è già mangiato quasi tutto: idee, sentimenti, ricordi.

Per cercare di rallentare il corso della malattia, l'artista – mentre finge di ascoltare le conversazioni dei suoi ospiti – si mette silenziosamente alla prova. Ogni momento, centinaia di domande sulla propria vita, sul passato, sulla storia, nel tentativo disperato di conficcarsi le risposte nella mente. «In che anno sono andata a Roma per lavorare con Carmelo Bene?». «Qual era il nome del personaggio interpretato da Mary Woronov in Chelsea Girls?». «Qual è il numero del centralino del Ritz?». Per molte domande, Thérèse ha una risposta, per altre si sforza di trovarla. Finché arriva alla numero 158 della serata: «In che occasione ho offerto a Juan il suo portafogli?». Risposta: «Per il passaggio all'euro nel… nel…? L'Europa è un argomento così noioso che non si ha voglia di ricordare le date».

Thérèse chiaramente non esiste (è il frutto della fantasia dell'ottimo Simon Liberati). Il sentimento che esprime, in compenso, è ben reale. L'Europa è una palla, punto e basta. Lo sanno bene gli editori: mai inserirla nel titolo di un libro, sarebbe condannato all'insuccesso. Lo stesso vale, in linea generale, per i film, le serie tv e qualsiasi altro prodotto d'intrattenimento. Mentre continuano a proliferare gli American Hustle e le American Dolls, le Chinese Odyssey e perfino le Russian Ark, di European in circolazione ci sono solo le crisi, i populismi e, ben che vada, le elezioni.

Ci siamo così abituati che lo diamo per scontato. L'Europa è antica, prospera e declinante. La maggior parte di noi ci vive bene, perché siamo abituati al suono delle campane e ai pranzi della domenica. Non è qui, però, che si costruisce il futuro. Se vuoi assaporare l'intensità del cambiamento, di un mondo nuovo in costruzione, devi andare a ovest, verso la frontiera digitale dei campus di Palo Alto, o a est, verso le città in tumulto della Cina (ri)emergente o perfino a Sud, per giocare alla roulette russa del boom di Lagos, Luanda o Brazzaville. Ed è inutile che i think tank recensiscano i poli d'innovazione europei, la Scandinavia hi-tech e le stravaganze berlinesi. Tanto lo sappiamo che qui non succede mai nulla. Francis Fukuyama avrà pure esagerato, ma da queste parti la storia, se non è proprio finita, di sicuro se la sta prendendo molto comoda. Eppure, siamo certi che le cose stiano così? Chiunque riesca a staccare gli occhi per un momento da Twitter e dai suoi sottoprodotti – telegiornali e quotidiani cartacei – è costretto ad ammettere che, in una prospettiva appena più lunga, la realtà appare diversa.

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