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Questo articolo è stato pubblicato il 25 aprile 2014 alle ore 06:37.

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PIOMBINO. Dal nostro inviato
«Non fatemi vedere la bestia mentre si addormenta» implora Giovanni Motto, un ingegnere che per mestiere ha addomesticato gli altoforni di mezza Italia, da Cornigliano a Taranto, questi cilindri coperti di ruggine simili a un aquafun con un treno a cremagliera, una sorta di montagna russa, che dall'alto vomita il coke. Alle 18,15 del 24 aprile l'Afo 4, la bestia di Piombino, è scivolato in coma farmacologico.Prima di abbandonare lo stato di veglia, gli operai svuotano il ventre della bestia dagli ultimi residui di ghisa liquida che precipita nei carri siluro fra una cascata di scintille.
Fuoco, fiamme e capannoni lunghi mezzo chilometro popolano questa landa di 85 ettari, quasi tre volte la città di Piombino, fra treni di laminazione, dune di loppa e forni dentro i quali cuoce il carbon fossile che annaffiato da acqua fredda alza nuvole di vapore. Dentro la fabbrica i sacerdoti dell'altoforno celebrano l'ultima liturgia, mentre fuori dai cancelli gli operai non si rassegnano a un futuro gravido di incognite. «Senza Piombino non ci sarà lavoro per nessuno» urlano mentre attraversano le vie di una città stordita e addolorata. Bloccano l'ingresso e le uscite di una città operaia in cui la fabbrica è l'inizio e la fine di tutto, la scenografia di un conflitto eterno tra imprenditori e operai. «Vado a estirpare l'ultimo baluardo dei khmer rossi d'Italia» arringa all'alba del '92 il Cavalier Luigi Lucchini, neo proprietario dell'acciaieria. I khmer rossi si sono guadagnati l'onore delle armi ma non hanno vinto. Neppure Lucchini ha avuto la meglio in una storia flagellata di scontri, incomprensioni e prove di forza che consegnano la fabbrica ai russi della Servestal di Alexey Mordashov, uno dei pupi di Vladimir Putin che attraverso le acquisizioni trasferisce in Europa una parte dei suoi profitti miliardari. «Il paradosso di quest'azienda? Guadagna meno degli altri quando il mercato va bene e perde più degli altri quando va male» dice un dirigente lucchiniano della prima ora. Lucchini e Riva, i due grandi dominus dell'acciaio italiano. Il ragiunatt milanese contro il cavaliere bresciano della siderurgia. Il vecchio Emilio si annida con i figli nella foresteria dell'Ilva di Taranto: supervisiona le colate continue e organizza una struttura di vertice occulta che marca a uomo i dirigenti dell'organigramma ufficiale. Luigi Lucchini in fabbrica non ci ha mai vissuto. E neppure suo figlio Giuseppe. Si narra che durante una ricognizione a Piombino l'erede del cavalier Luigi incroci un operaio addormentato. La tuta blu si sveglia di soprassalto, non riconosce il padrone bresciano e ricade nelle braccia di Morfeo. Giuseppe esclama: «Se avesse saputo chi sono sarebbe saltato su come un grillo». La morale? Emilio Riva quell'operaio l'avrebbe cacciato su due piedi, il gentiluomo Lucchini lo lascia al suo riposo. Storie e aneddoti scorrono come una colata continua. C'è voglia di riannodare i fili della memoria, di riavvolgere il nastro della storia prima che le esistenze degli operai diventino numeri sulle carte intestate dei ministeri, dati anagrafici manovrati dagli accordi politici, curricula incasellati negli elenchi degli ammortizzatori sociali o nelle trattative per accaparrarsi la Concordia e le navi militari da spolpare. Le parole che si rincorrono sono «garanzie», «lavoro», «futuro». Sembra il precipitato della crisi italiana che in questa città di 35mila abitanti trova una delle sue sintesi più infelici.
Eppure, non tutto è perduto. Il futuro ha un nome è cognome: Sajjan Jindal, chairman e azionista della Jsw, il gruppo siderurgico più potente dell'India con quattro acciaierie sparse per il Paese e ricavi per 4,5 miliardi di dollari. Nel quartier generale di Mumbai, con annessa acciaieria, Jandal atterra con il suo jet privato. Famoso il suo mecenatismo: la fondazione legata all'industriale indiano pensa al sostentamento alimentare di 14 mila bambini, a patto che frequentino regolarmente le lezioni scolastiche. Sajjan, un mese fa, è arrivato a Piombino senza farsi notare. Ha girato la fabbrica, conosciuto i dirigenti e i tecnici, intervistandoli personalmente. A Luca Faenzi, 43 anni, responsabile dei treni di laminazione della vergella, ha chiesto: «Sarebbe disposto a lavorare all'estero?». Ovvia la risposta affermativa. L'offerta di Sajjan Jindal ha già avuto accesso alla due diligence. Una fase avanzata del percorso negoziale lungo il quale magnate indiano - questa volta l'aggettivo non è usato a sproposito - ha un solo rivale: il fratello più giovane Naveen, pure lui industriale siderurgico e folgorato sulla via di Piombino, grande produttore di energia elettrica e sostenitore del partito del congresso di cui è presidente Sonia Gandhi. L'antagonismo tra i due fratelli Jindal è arcinoto. Sajjan, peraltro, è un convinto sostenitore dei Corex, un impianto per la produzione di ghisa liquida richiesto a gran voce dagli operai che dovrebbe accoppiarsi al forno elettrico.
Se l'operazione fosse coronata dal successo, sarebbe il primo investimento in Europa della famiglia indiana. Impossibile penetrare i silenzi del commissario straordinario Piero Nardi. Filtra solo l'indiscrezione che la data per accedere alla due diligence, fissata tassativamente per il 30 di aprile, potrebbe slittare di una quindicina di giorni: più acquirenti, più chance per l'acciaieria. Il tempo delle promesse mirabolanti di Khaled al Habahbeh è solo uno sgradevole ricordo. Morte e resurrezione di Piombino nel giorno dell'orazione funebre per l'altoforno. Un paradosso. O un mezzo miracolo. Per i dettagli rivolgersi a Papa Francesco.

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