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Questo articolo è stato pubblicato il 11 maggio 2014 alle ore 08:15.

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Mio nonno, che era uno spagnolo andaluso, aveva un ristorante a Santiago del Cile, che mio padre avrebbe poi ereditato. Si chiamava «Don Lucho», il soprannome che in Cile si dà a chi si chiama «Luis», che era anche il nome di mio padre. Lo slogan del locale era: «Ristorante Don Lucho, dove si mangia meglio che a casa». Era abbastanza grande, quaranta tavoli da quattro, quindi una capienza di circa centosessanta persone, ed era diventato uno dei ritrovi preferiti dei giornalisti. Si animava di una vita particolare la sera, quando questi finivano la giornata di lavoro, le redazioni chiudevano, e tutti andavano a mangiare là. Forse anche per questo decisi, da giovane, che volevo fare il giornalista. Quando compii sedici anni fu indetta una riunione di famiglia per discutere del mio futuro. Mi venne detto: «La tua missione è proseguire la tradizione e prendere in mano il ristorante. La famiglia pensa che il prossimo anno potresti cominciare a frequentare l'istituto alberghiero, diventare uno chef». Ma io rifiutai. Fu allora che rivelai di avere altri piani, che volevo studiare letteratura, entrare nel mondo dei giornali.
Interruppi così la tradizione famigliare. Ma subisco ancora il fascino di tutto ciò che è elaborazione e preparazione del cibo, e poi convivio, oltre a una certa ossessione per l'ordine assoluto in cucina. Mio padre era infatti una sorta di nevrotico dell'ordine: tutte le sere prima di andare a casa controllava la sua postazione di lavoro e il locale intero, per verificare che non ci fosse uno spillo fuori posto. Era altrettanto preciso nella scelta delle materie prime: la mattina lo accompagnavo prestissimo a comprare la verdura migliore, il pesce più fresco. Aveva un modo di comprare il pesce quasi parlandogli, gli apriva la bocca, guardava all'interno. E così con gli altri prodotti, scelti con amore, combinati con passione. Questi sentimenti, non solo il cibo, finivano sulla mensa. E quando io portavo il pane, sentendomi circondato da un aroma che era più forte e più buono di quello dei fiori sui tavoli, guardavo la faccia della gente, i loro sorrisi, la felicità della condivisione del lavoro a cui avevo contribuito anch'io. Un percorso cominciato presto la mattina con il viaggio fino al mercato, passato attraverso le mani di chi lavorava, la creazione del menù del giorno, e infine l'ultimo controllo di mio padre che assaggiava tutto e nel caso non fosse contento era capace di fermare i camerieri già sul punto di servire: «Fermo, fermo un attimo, questo no! Va rifatto!» Era uno sforzo collettivo, che in ogni fase prevedeva una dose di manualità. Quella del personale di cucina, certamente, specialisti ciascuno nel suo campo, che fosse la verdura oppure la carne. Ma anche la manualità della campagna, perché dai campi arrivavano i contadini con la frutta freschissima di stagione. O quella degli apicoltori che portavano il miele dal profondo Sud del Cile: tra loro c'era una famiglia mapuche, i cui fiaschi di miele avevano tutto il profumo del bosco, tutto il profumo di una parte del continente americano lontana, anche per i cileni. Gli indios aprivano questi fiaschetti di miele e ti circondava un profumo che era quello dell'avventura, di una regione di pionieri, ti chiamava il desiderio di andare a vivere in quella parte del mondo. Per tutti questi motivi il mio rapporto col cibo è stato sempre un rapporto pieno di vita, che mi ha donato continuamente e ancora mi dona emozioni nuove.
Mi chiedo sempre: «Da dove arriva questo prodotto, questa ricetta? Come si chiama?», e sono convinto che siano domande importanti, non superficiali, non oziose. Mi viene in mente un brano di un grande drammaturgo tedesco in cui si osserva che, nel famoso banchetto di Giulio Cesare e Cleopatra, a contare davvero è qualcosa che la storia non dice: come si chiamava il cuoco? Che cosa mangiarono? Chi aveva fatto il vino? E chi era il pescatore che aveva portato la perla da mettere nel vino di Cleopatra? Una serie di domande importantissime che tutte insieme permettono di costruire una versione più colorata e infinitamente più viva della storia. D'altra parte è proprio questo lavoro elementare, quello fisico del far crescere la vita, di coltivare, di preparare i cibi fondamentali che da sempre accompagnano la nostra storia, a rendere possibile la comunicazione su cui si basa la nostra socializzazione. Qual è, in fondo, il momento più alto del consesso umano? La riunione di un Senato? Di un Congresso? La riunione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite? Niente affatto: il momento più importante per l'umanità si ripete ogni giorno, moltiplicandosi, in maniera anonima. Ed è quando alla fine della giornata la famiglia, grande o piccola, si siede a tavola per godere di un'esperienza semplice della vita come mangiare qualcosa che è stato fatto con amore, qualcosa che ha una storia alle spalle. Anzi, più di una. Ogni pasto, per quanto semplice, contiene una molteplicità di storie. C'è la storia del contadino che ha piantato e coltivato la patata e magari la storia del viaggio della patata da un paese all'altro. Quella del vignaiolo che ha coltivato la vite e prodotto il vino, e magari quella del viaggio del vino da un continente all'altro. È il momento del giorno che preferisco, il pasto serale. Qui il gruppo minimo che è la base primordiale di ciò che si chiama umanità si siede a tavola e partecipa alla piccola, enorme narrazione che è il meraviglioso racconto della giornata trascorsa.

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