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Questo articolo è stato pubblicato il 04 giugno 2014 alle ore 16:56.
L'ultima modifica è del 04 giugno 2014 alle ore 17:35.

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Al secondo piano di un palazzo nella bella piazza del Mercato Lungo a Danzica, c'è l'ufficio di Lech WaLesa. L'appuntamento è alle 11, e l'approccio, dopo una rapida stretta di mano, è burbero e secco: «Prima domanda», traduce l'interprete, compunta. Il premio Nobel per la pace del 1983, che ha cambiato le sorti del proprio Paese con la pervicacia di una lotta giusta, è un uomo di 70 anni che appare un po' disincantato e ha l'aria di chi ha davvero visto tutto.

Quando gli si chiede che cosa è diventata la Polonia, che bilancio si sente di fare a 25 anni da quella stagione, spiega che è un «Paese alla ricerca delle sue possibilità nel XXI secolo e vuole recuperare il tempo perduto prendendo come modello i Paesi occidentali. L'importante è non fare gli stessi errori, perché altrove i soldi sono più importanti dei valori umani, e le sperequazioni tra ricchi e poveri sono forti». Massiccio, capelli e baffi grigi, gli occhi di ghiaccio, ha uno sguardo intransigente, come il tono che usa quando parla degli operai di oggi «che devono darsi da fare, cercare un lavoro, organizzarsi, e questo a molti pesa.

Un tempo ci pensava il partito e per alcuni era più comodo: tutti avevano un'occupazione, e anche se non rendeva poi si divideva quel che si guadagnava, i più forti ricevevano di più. Il cambiamento del regime ci costò il crollo dell'economia (la produzione industriale si ridusse del 30% ndr), la fine dell'Unione sovietica determinò la perdita di quel mercato, dobbiamo costruire la collaborazione su condizioni diverse». Con la Russia, certo, e nella grande casa che è l'Europa: «Siamo arrivati così in alto, con la tecnologia, che non entriamo più nei nostri confini: è il passaggio dallo Stato Paese allo Stato europeo. Si parla di globalizzazione, ma la prima domanda è quali temi dobbiamo sviluppare e regolare. Per esempio, non lascerò globalizzare mia moglie Danuta», scherza.

Lo sguardo si fa di nuovo serio quando, a proposito di impostazione comunitaria e non nazionale, si parla di Ucraina. Qui Walesa ha una posizione precisa e usa, non a caso, una parola storica. La "sua" parola: «È il momento in cui si mette alla prova la solidarietà europea. Si dovrebbe organizzare un gruppo e pensare quali sono le possibilità di far tornare indietro Putin. Si dovrebbe chiedere a ogni Paese se è contento di quel che sta facendo Putin, ciascuno dirà no e rifletterà su cosa si può fare per fermarlo: uno può finanziare di nascosto (gli ucraini, ndr), si può non prendere il gas, insomma arrivare a varie soluzioni: e tutto dipende dalla solidarietà dei Paesi europei. Si può vincere solo così, in modo pacifico». Cosa ha pensato quando si è parlato di un Nobel per la pace a Putin? «Ho pensato che fosse uno scherzo cattivo».

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