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Questo articolo è stato pubblicato il 08 giugno 2014 alle ore 08:15.

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Il percorso artistico di Andrzej Wajda è stato segnato dalla storia del '900 come quello di tutti, ma nella sua peculiare condizione di polacco, figlio di un Paese posto a mezzo tra Germania e Russia che ha trovato nei suoi culti (la nazione, la chiesa) la forza di resistere a guerre e occupazioni, pur tra contraddizioni e conflitti interni, anzitutto di classe. Nato nel 1926, ha sofferto l'oppressione nazista e quella russa (il padre morì a Katyn, come ha potuto affermare pubblicamente solo da vecchio), ha visto e vissuto gli abomini della Storia, e ha vissuto tutte le speranze e disillusioni del dopoguerra e subito in particolare il comunismo di stampo e dominio sovietico, ma ha potuto farsi strada come uno dei grandi artisti della sua generazione nel campo del cinema, pubblico per definizione, e che era nei Paesi comunisti più minato che in altri. Fu nella seconda metà degli anni Cinquanta e negli anni del "disgelo" che si affermò come uno dei maggiori registi del suo tempo, con film barocchi e romantici, disperati e ambiziosi, estremamente personali anche se rispondenti a logiche generazionali che riguardarono tutto l'Est e, tramite le nouvelles vagues, gran parte del pianeta.
I registi delle nouvelles vagues dicevano «io», ma l'«io» di Wajda, pur nelle più esasperate delle sue esplicitazioni, non dimenticò mai il «noi» della collettività, dell'appartenenza, della Storia. Nessuno sfugge alla Storia, ma come è stato più semplice e fortunato il nostro dopoguerra rispetto a quello di altri Paesi! I nostri artisti hanno avuto una vita facile rispetto a quelli dell'Est, e di questo la nostra critica (i nostri intellettuali) non hanno certo tenuto conto quanto avrebbero dovuto. È una domanda stupida, ma osiamola: cosa avrebbero fatto un Fellini, un Antonioni, "cugini" privilegiati di Wajda, se fossero nati polacchi?
L'enorme rispetto che merita l'opera di Wajda, nelle sue evoluzioni e arresti, deviazioni, allargamenti, approfondimenti, ritorni, tra autobiografia generazionale e romanzo storico, tra racconto di guerra e racconto di pace, tra passato e presente, tra illusioni e disorientamenti, viene dalla sua costante tensione a cercare e a dire anche nelle situazioni più difficili qualcosa che riguardasse tutti, e prima di tutto il tutti del suo Paese. Senza mai dimenticare la sua appartenenza all'Europa, che per lui è stata anzitutto Francia e Germania. Non c'è un solo titolo della sua varia e abbondante filmografia che ci risulti evasivo e "riposante", e nessuno che non figuri come un prodotto degli anni specifici in cui è stato pensato e realizzato, sia che egli potesse esprimersi liberamente o soltanto dentro un gioco di specchi e di rimandi che erano tuttavia evidenti a chi avesse gli occhi per vedere e la coscienza dei dilemmi dell'epoca.
È la Storia ad avere avuto infine il sopravvento nei suoi film, come una grande riflessione sul proprio Paese; dopo il romanticismo tragico e a tratti epico degli inizi, dopo il confronto con il grande romanzo, dopo le tentazioni plastiche ed estetiche, dopo le fughe o le mascherature di una cultura ricca e complessa. Sempre presente, evidente o nascosta, da filigrana essa si è fatta protagonista, e sono L'uomo di marmo e L'uomo di ferro (1978 il primo, 1981 il secondo) a mostrarci un Wajda che si assume coscientemente il compito di "fare storia", a uso dei suoi contemporanei e delle nuove generazioni, fino a quel grande «romanzo storico» che è stato Katyn, poco amato dai nostri critici ignavi e modaioli. Wajda si è fatto carico come pochi altri artisti del Novecento di una responsabilità e un peso collettivo, e nei suoi film il tutti è diventato ineludibile e preponderante, l'io sempre più controllato o nascosto. In L'uomo di marmo c'era già, ed è dominante in Walesa, Danzica, luogo esemplare di una riflessione nazionale. L'eco del massacro operaio del 1970 pervade quel film di 35 anni fa così come pervade quello di oggi. Era la vera storia di un «eroe del lavoro», quella del vecchio film, così come lo è quella del nuovo. Quel che nel primo film era la sperimentazione di un modo di "fare storia" perfettamente cinematografico, necessariamente composito – ricostruzione documento invenzione, "studio" e strada, presa diretta e recitazione, bianco-nero e colore, romanzo e televisione – ritorna in Walesa in una messa a punto che ci appare più spontanea anche se meno nuova, perché il controllo che ha ormai Wajda su ogni aspetto del linguaggio cinematografico è unico e magistrale, nella somma abilità della mescolanza delle forme secondo una necessità che è a volte oggettiva e a volte poetica, per associazioni e per giustapposizioni di recita e di vero.
La tentazione epica dei primi film ritorna anche in Walesa, perché è pur sempre di storia della nazione che si parla, di Grande Storia, e di una storia finita comunque bene, almeno fino a nuovi e inediti conflitti che non potrà più essere Wajda a narrare ma per raccontare i quali il suo insegnamento sarà basilare. Walesa e la sua compagna sono incarnati da attori, come in qualsiasi film biografico, e il pretesto dell'intervista come punto di partenza non è certamente nuovo, ma gli attori sono costretti dentro maglie documentarie a cui non possono sfuggire, e continuamente, senza tregua, con un ritmo incalzante, il protagonista entra nel coro e il coro (il tutti) lo assorbe e lo ripropone e riplasma, l'uno e la Storia, nella Storia, e dunque gli altri, la «classe» e il potere, gli operai e i politici, i polacchi e i russi, e mettendo al centro – perno della ricostruzione – un'ammirevole riflessione sul ruolo dell'individuo, sulla formazione e funzione del leader e le sue contraddizioni, un leader che ha i suoi limiti e ha i suoi pregi, necessari entrambi a un rapporto vero con il contesto. La narrazione dei meccanismi di uno sciopero, dell'affermazione di una leadership, dei modi di reagire del potere è, quasi minuto per minuto, solidamente esemplare. Wajda sa quello che vuole, sa che il suo film deve "far storia", restare agli atti, fungere da riferimento, come informazione spiegazione ammaestramento, anche per gli spettatori a venire, soprattutto quelli del suo Paese.

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