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Questo articolo è stato pubblicato il 08 giugno 2014 alle ore 08:14.

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Questo è stato detto dal Beato Buddha: «O monaci, a proposito dei fattori esteriori, io non scorgo, per il monaco studente... nessun altro fattore così utile quanto, o monaci, la buona amicizia. Il monaco che possiede un buon amico, o monaci, abbandona ciò che non è salutare e fa sviluppare ciò che è salutare». Il breve passo dal celebre «Così è stato detto» del Canone pali sancisce la buona amicizia tra i valori determinanti nella crescita spirituale; in altre parole, tra i fattori che soccorrono e incentivano chi lo ha intrapreso nel percorso dell'Ottuplice Sentiero, ossia dell'itinerario di salvazione dal dolore che il Risvegliato annuncia. E le Parole di Dhamma» (VI, 3) invitano: «Ci si associ agli amici spirituali / ci si associ ai nobili», non per nascita, si intende, ma per la scelta del perfezionamento di sé e della misura costante con chi ha compiuto la stessa scelta.
L'amicizia spirituale è davvero un fattore potente, di per sé efficace, dello sviluppo interiore ed etico, forse trascurato oggi, quando spesso confondiamo l'amicizia con la connivenza o con l'evasione dall'impegno. Rischi che certo sono in agguato sempre, come gli stessi testi buddhisti citati riconoscono mettendo in guardia dalle frequentazioni degradanti.
Testi dal sapore particolare della grande tradizione del Dharma sono così le Lettere che invitano un amico o un giovane discepolo alla scelta del cammino verso l'illuminazione e gli offrono indicazioni preziose sul modo di affrontarlo. La forma letteraria è naturalmente assai frequentata anche in Occidente, dove le epistole – fin dall'antichità greco-romana – rappresentano un genere diffuso e altamente formalizzato. In Asia il più antico esempio buddhista è la Lettera a un amico di Nagarjuna (fine del I-inizi del II secolo d.C.) che il Dalai Lama ha emblematicamente scelto come testo da commentare durante la prima giornata della prossima visita nel nostro Paese: invitato dall'Istituto Lama Tzong Khapa (ILTK) di Pomaia, Sua Santità sarà infatti il 14 e 15 giugno a Livorno, dove conferirà i suoi insegnamenti ispirati al testo di Nagarjuna e alla figura del Bodhisattva Avalokiteshvara.
Filosofo e logico fra i più sottili e perfino estremi di ogni tempo e paese, Nagarjuna conclude la sua vita nella regione storica del Magadha (oggi Bihar) come abate del celebre monastero di Nalanda, che si avviava a diventare anche un'università di fama internazionale non solo per le discipline filosofico-religiose, ma altresì per quelle laiche come la grammatica, l'astronomia o la medicina. Il suo impegno straordinario nella ricerca va di pari passo con l'ammaestramento etico, impegno di cui la lettera è un esempio altissimo. Indirizzata a Gotamiputra, sovrano della dinastia dei Satavahana e mecenate del primo monastero costruito da Nagarjuna nell'Andhra, sua terra natale, l'epistola naturalmente espone i punti forti della visione filosofica buddhista: l'impermanenza (cfr. strofe 48 e 57-58), cioè l'assenza di un nucleo metafisico stabile in qualsivoglia fenomeno, e il "sorgere dipendente" (strofe 109-112), cioè l'apparire di ogni fenomeno transitorio – tra cui la nascita con l'inevitabile carico di dolore – per il concorso di cause infinite, ciascuna di per sé insussistente. È la premessa della famosa "vacuità" (shunyata in sanscrito) di cui Nagarjuna è stato il primo e più grande teorico e che costituisce il cuore della "saggezza" buddhista del Grande Veicolo, poi diffusa in Asia Centrale, Cina, Tibet, Asia Orientale e da qui oggi in Occidente.
La Lettera non sviluppa solo argomenti filosofici di tale levatura, ma anche suggerimenti di vita (le donne da scegliere, l'alimentazione, str. 37-38) ed elementi di pressione psicologica come il terrore degli inferni di contrappasso numerosi nell'immaginario buddhista dell'epoca: «Alcuni vengono spremuti e pressati come i semi di sesamo, / altri vengono polverizzati come farina dai chicchi di grano; / alcuni vengono tagliati a pezzi con seghe / e altri ancora sono squartati con terribili scuri munite di lame affilate» (str. 78). Ma più di questi aspetti, caratteristici di ogni predicazione "missionaria", colpiscono i tratti di poesia, come nella terza strofa dell'incipit che rivendica il valore illuminante del testo: «Anche se tu, o Re, puoi aver già sentito e compreso / tutti gli squisiti e saggi discorsi del grande Muni , / non pensi che ciò che è fatto con intonaco di gesso, / possa diventare ancor più bianco sotto la luce della luna piena?». E soprattutto colpiscono i versi dove prevale il timbro affabile e colloquiale che si riserva appunto agli amici, com'è anche nello stile inimitabile dell'attuale Dalai Lama: «Riconoscendo la ricchezza come effimera e priva di sostanza, / esercita correttamente te stesso in azioni generose / verso i monaci, i brahmani i poveri e gli amici./ Per il futuro non c'è migliore amico della generosità» (str. 6). «Se pensiamo che una tale persona ci insultò e un'altra ci colpì, / oppure una ci oppresse e un'altra trafugò le nostre ricchezze, / un simile risentimento nella nostra mente genera conflitto; / colui che lascia andare il risentimento, dorme tranquillo» (str. 16). Le strofe adottano spesso lo stile enumerativo caratteristico di molti aforismi, non solo buddhisti, stile che riflette l'inclinazione irresistibile della cultura indiana alle tassonomie: «Eccitazione e rimpianto, malevolenza, apatia e sonnolenza, / desiderio sensoriale, scetticismo dubbioso: / questi sono i cinque ostacoli che dovrai riconoscere come ladri, / poiché trafugano il tesoro della tua virtù» (str. 44).

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