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Questo articolo è stato pubblicato il 29 giugno 2014 alle ore 08:12.

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Per l'ex sindaco di Venezia Giorgio Orsoni non si chiude l'inchiesta Mose. Nonostante le attese di un patteggiamento, che avrebbe ridotto la pena a 4 mesi e a una sanzione di 15mila euro, ieri il Gup di Venezia Massimo Vicinanza ha respinto la richiesta della procura e del legale di Orsoni. Per il Gup il reato commesso – finanziamento illecito per la campagna elettorale di 400mila euro – è ben più grave. Il processo dunque si farà, anche tenendo conto «dell'atteggiamento processuale dell'indagato e del venir meno della carica che egli ricopriva quando è stata adottata la misura cautelare», avrebbe scritto il Gup nell'ordinanza. Quelle di Orsoni vengono descritte come «condotte molto gravi». L'ex sindaco è agli arresti domiciliari dal 4 giugno, con l'ondata di arresti (35) fatti scattare dalla procura per gli appalti legati alla realizzazione del Mose: un giro d'affari, secondo i pm Stefano Ancilotto, Stefano Buccini e Paola Tonini, caratterizzato da almeno un decennio da tangenti e finanziamenti illeciti, con l'accumulo di 40 milioni di fondi neri nascosti in gran parte a San Marino e in Svizzera.
La posizione di Orsoni, all'interno dell'inchiesta, non è la più grave, ma il suo caso sarebbe emblematico, secondo gli inquirenti, della ricerca continua di consenso che il Consorzio Venezia Nuova (Cvn), a capo del progetto delle dighe, cercava nel territorio, anche nei confronti di chi non aveva direttamente a che fare con le autorizzazioni del Mose, come appunto il Comune.
Orsoni per la campagna elettorale del 2010 avrebbe ricevuto 260mila euro dal Consorzio, anche se l'ex presidente del Cvn, Giovanni Mazzacurati, parla di 400mila euro. Cifra confermata dallo stesso Orsoni durante un confronto con i pm, durante il quale ha spiegato che alcuni dirigenti del Pd indicarono il Cvn come fonte di finanziamenti (Orsoni spese circa 500mila euro, di cui 100mila personali).
Dopo lo shock del provvedimento cautelare, Orsoni è stato al centro di un turbillon: il 12 giugno il ritorno in libertà, poi l'affermazione di voler rimanere alla guida del Comune, poi le dimissioni da sindaco, quindi la difesa davanti al Consiglio comunale. E negli stessi giorni il benservito da parte del Pd.
La sua tesi difensiva è che il suo rapido rilascio sarebbe segno di chiarezza nella sua condotta e di scarse responsabilità. Oltre al fatto di aver seguito le indicazioni del Pd. Parole che sarebbero state poco gradite in procura, dove al contrario si sottolinea che la rapidità della scelta non alleggerirebbe le colpe, ma sottolineerebbe la veridicità e la correttezza delle indagini.
Secondo il Gup quelle di Orsoni sono condotte gravi «sia per l'entità del contributo illecito ricevuto, sia per la provenienza soggettiva e oggettiva del denaro, sia per l'inevitabile rischio per la corretta gestione della cosa pubblica che ha comportato l'aver ricevuto ingenti somme». Proprio questi aspetti hanno portato il giudice dell'udienza preliminare a ritenere «del tutto incongruo» l'accordo proposto dall'ex sindaco, soprattutto tenendo conto che la multa sarebbe «cento volte inferiore a quella massima irrogabile se si tiene conto dell'entità del finanziamento illecito ricevuto».

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