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Questo articolo è stato pubblicato il 19 agosto 2014 alle ore 07:28.
L'ultima modifica è del 19 agosto 2014 alle ore 09:18.

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«Sfortunatamente, e non lo dico come scusa, sulla crescita di quest'anno ci siamo tutti sbagliati, organizzazioni internazionali e Governi» ammette Pier Carlo Padoan. Oltre che raro, l'algido candore del ministro dell'Economia potrebbe apparire anche coraggioso, se la sua ammissione non seguisse una percezione da troppo tempo diffusa tra chi sprofonda quotidianamente nelle difficoltà del l'economia reale e nello sconforto che genera tra cittadini, imprenditori e professionisti sfiduciati.

Sulla corda. Non solo in Italia ma quasi dovunque in giro per l'Eurozona.
Anche se non si è ancora dissolta, l'emergenza euro è stata spodestata dall'emergenza crescita che non c'è: se non si correrà al più presto ai ripari per arginare la seconda, presto o tardi anche la prima ritroverà vigore, scavando fossati incolmabili tra i Paesi creditori e i Paesi debitori condannati all'insolvenza se troppo a lungo mantenuti in apnea da sviluppo. Con l'aggravante della deflazione, dei prezzi in caduta che complicano l'ordinata gestione degli squilibri nei conti pubblici e per questo alla lunga rischiano anche di vanificare le regole del fiscal compact.
Ora che la recessione colpisce anche in Germania (sia pure limitatamente per ora al secondo trimestre dell'anno), con la Francia ferma al palo e l'Italia in piena gelata, logica vorrebbe che l'Eurozona, con i due terzi dell'economia in arretramento, rinserrasse le fila, ritrovasse non per amore ma per forza la solidarietà degli interessi. Invece, come due anni fa ai tempi di "Grexit", quando il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble affermava pubblicamente che l'euro avrebbe potuto senza problemi «assorbire l'uscita della Grecia» (salvo poi smentirsi nei fatti), neanche oggi si coglie il sentimento che accomuna tutti quelli che stanno nella stessa barca.

Al contrario. Il presidente francese François Hollande dieci giorni fa invocava da Germania e Bce una ferma azione per rilanciare la crescita. Il portavoce di Angela Merkel ha immediatamente respinto l'appello al mittente: «L'economia tedesca è già un importante, anzi il più importante, motore della crescita dell'Eurozona». Ma ora che quel motore non tira, la Francia ritorce per dire con il ministro Michel Sapin che «visibilmente c'è un problema francese e uno europeo».
E aggiunge, dal basso della sua crescita zero, che Parigi non potrà rispettare l'impegno a ridurre il deficit al 3,8% ma supererà il 4 per cento. E poi lo farà scendere «a ritmo appropriato», quello di un'economia catatonica.
Un modo neanche tanto obliquo per dire che o Hollande otterrà con le buone la flessibilità delle regole, già a suo tempo incassata con il (vano) rinvio di due anni, al 2015, dello sforzo per centrare il 3%, oppure se la prenderà comunque, la flessibilità, causa forza maggiore. Secondo la miglior tradizione, parole a parte, del consolidato ribellismo francese alla disciplina europea.

Le scintille franco-tedesche si accompagnano alla crociata italiana che persegue gli stessi obiettivi con Berlino, Francoforte e Bruxelles, pur sapendo di ritrovarsi davanti un muro di reticenze o di aperta ostilità. Invalicabili? No, ma a una precisa condizione: la concreta attuazione di riforme strutturali che latitano a Roma come a Parigi ma che sono ritenute lo strumento indispensabile per porre le basi di una crescita economica dinamica e duratura.
Nell'era globale la modernizzazione dei sistemi produttivi europei è urgente e ineludibile. Ma l'ossessivo Leitmotiv delle riforme comincia ad assomigliare un po' troppo all'altro del rigore a senso unico, che avrebbe dovuto essere la panacea di tutti i mali dell'euro e invece si è dimostrato l'anticamera della recessione e di nuovi debiti. Si discuterà anche di questo, e non solo di nomine, al vertice Ue di Bruxelles il 30 agosto. Ed è certo che lo scontro sui margini di manovra economico-finanziari sarà anche più violento della guerra sulle euro-poltrone. Essendo presidente semestrale dell'Unione, l'Italia cercherà di tirare al massimo una coperta stretta dalla parte sua e della Francia.

La congiuntura economica negativa gioca a favore di un'interpretazione più morbida delle regole e di piani europei di investimento in grado di invertirla. Però, senza riforme strutturali fatte alla mano, è molto improbabile che la Germania o la Bce siano disposte a scendere dai rispettivi piedistalli: pretendono infatti la corresponsabilità di un'eventuale svolta, rifiutano la partita del dare senza la certezza dell'avere. Perché sono le due facce della stessa medaglia dello sviluppo.
Quindi, o tutti i Governi se ne convinceranno agendo di conseguenza oppure l'eurozona continuerà a trascinarsi nel l'anemia da crescita, nell'illusione gli uni di cavarsela comunque, gli altri di prendersi alcune libertà in ogni caso. Finora però il gioco è solo riuscito a sfiancare l'Europa.

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