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Questo articolo è stato pubblicato il 27 settembre 2014 alle ore 08:11.
L'ultima modifica è del 27 settembre 2014 alle ore 11:08.

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La nuova guerra di religione sul tema sensibile del lavoro che si sta combattendo per l'ennesima volta nel nostro Paese va nella direzione contraria alla fiducia.
Se ne parla poco, ma anche negli States esiste in linea teorica il reintegro: ma non lo impone quasi mai il giudice e, soprattutto, non lo considera conveniente il lavoratore che, in genere, monetizza un indennizzo e cerca altre opportunità altrove. Perchè lì il mercato – funzionante – lo consente.

Ed è questa la vera posta in gioco: creare un mercato del lavoro degno di questo nome in cui la gran parte delle assunzioni siano affidate a contratti a tempo indeterminato flessibile. Superando una concezione assistenziale del welfare, degna più di sudditi che di cittadini-lavoratori consapevoli. E archiviando la stagione del dualismo squilibrato tra gli insider iperprotetti e gli outsider iperflessibili. È un fatto di equità e di efficienza.
Significa una rete di agenzie per facilitare l'incontro tra domanda e offerta di lavoro (pubbliche e private in rapporto di sussidiarietà); risorse per gestire formazione per migliorare i curricula di chi perde l'impiego; risorse per garantire un forma di ammortizzatore sociale universale per chi perda il lavoro e si impegni a cercarne un altro. Significa superare le lacune di un federalismo sbilenco che ha destinato alle Regioni la creazione delle agenzie per l'impiego (con drammatici divari territoriali di efficienza) e il tema della formazione, in genere slegato rispetto alle reali esigenze delle imprese che dovrebbero assumere.

Si tratta di un impianto riformista – e la delega in discussione al Senato sembra recepirne l'ambizione, anche se con formulazioni ancora ampie e ambigue – ma ha bisogno di una dote ingente di risorse per funzionare davvero. Invece che dibattere tra i guelfi del sì-articolo 18 e i ghibellini del no-articolo 18 alla ricerca di uno "scambio" pasticciato tra tutele crescenti che abbiano prima o poi anche la "reintegra" sarebbe bene organizzare uno "scambio" tra semplificazione delle regole e dotazione delle risorse per le politiche attive. Anche perchè si rischia l'eterogenesi dei fini: una riforma nata per togliere il reintegro per il 5% delle imprese italiane, quelle sopra i 15 addetti, rischia di introdurlo (dopo 5, 7 o 10 anni) per il 100% delle imprese italiane. In sostanza: si estenderebbe invece che ridursi.
La politica attiva è e resta il tema vero per il legislatore. Per le parti sociali, che hanno una storia importante e unica in Italia, l'impegno dovrebbe diventare invece quello di creare e distribuire la produttività. Rimasta finora negletta in questa Italia coperta dalle coltri delle polemiche sui diritti che ha reso impossibile una discussione serena su come creare ricchezza e come allocare gli investimenti. È questa la nuova frontiera di relazioni industriali avanzate, la vera sfida per imprese e sindacati. Negli Usa lo hanno capito. A un passo dal baratro. E si sono salvati. Non è il caso di tenerne conto?

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