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Questo articolo è stato pubblicato il 01 ottobre 2014 alle ore 11:35.
L'ultima modifica è del 01 ottobre 2014 alle ore 07:52.

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È una splendida sveglia, sapendo leggerla in prospettiva: una domanda di democrazia alla quale Hong Kong e soprattutto la Cina prima o poi dovranno dare una risposta intelligente. Ignorare ciò che sta accadendo sarebbe un errore perché anche se oggi, anniversario della Cina comunista, Occupy Central fosse repressa, indietro non si torna più. È solo questione di tempo. Per quanto, diversamente da noi, nella cultura confuciana sinonimo di tempo è pazienza.

Come dimostra il disastro delle Primavere arabe, la democrazia è un bene per Paesi socialmente ed economicamente avanzati. I sette milioni di hongkonghesi hanno dunque il diritto di averla perché saprebbero come amministrarla. Il miliardo e 300 milioni di cinesi del continente forse non ancora.

La Cina comunista non ha mai tentato di spacciarsi per una "democrazia popolare". Giustifica le sue chiusure politiche con la destabilizzazione che un cambiamento potrebbe provocare nel bel mezzo della vera lunga marcia di quel popolo: la trasformazione e la modernizzazione di una delle nazioni più antiche del mondo.

La storia cinese degli ultimi due secoli dà qualche ragione al Politburo. I dati sociali ed economici no: quanto meno testimoniano che il compimento della marcia non è lontano. Nel 1776 la parola d'ordine dei ribelli del New England era «no taxation without representation». Non era uno slogan rivoluzionario ma una rivendicazione borghese.

I cinesi che sono liberi di comprare quel che vogliono su internet, che investono, i cui figli vanno e tornano da Harvard, sono sempre più simili a quei borghesi americani. Se è vero che stiamo parlando di un prodotto della cultura occidentale, la democrazia rappresentativa è un bene trasportabile in natura: come il greggio. Il decollo economico e poi politico del Giappone e della Corea del Sud sono modelli asiatici.
Il problema nel mondo cinese è che il tempo e la pazienza restino sinonimi. Piazza Tienanmen fu una tragica rottura.

Tuttavia dopo il massacro di 25 anni fa, la Cina non si è chiusa in un immobilismo timoroso: è parte del Wto, ha aperto la sua economia, gioca le sue partite geopolitiche dentro il sistema internazionale, cambia radicalmente leadership ogni dieci anni. Sulla vicenda della scelta dei candidati al posto di chief executive, praticamente l'amministratore delegato della regione autonoma di Hong Kong, la Cina non sta violando gli accordi successivi a quello del 1984 firmato da Deng Xiaoping e Margareth Thatcher.

Gli hongkonghesi, che non avevano diritto di voto ai tempi della colonia britannica, avrebbero conquistato il suffragio universale attraverso una devolution politica nel tempo. Ma non veniva specificato come i candidati sarebbero stati selezionati. Già così Hong Kong è di gran lunga più avanti di Pechino nei diritti politici, rispettando il principio di "un solo Paese, due sistemi" sancito nell'84.

Sono i giovani di Occupy Central a forzare i contenuti degli accordi, come è naturale che sia per una regione autonoma in realtà matura per la piena democrazia. Questo Deng non lo aveva previsto. Ora è difficile pensare che l'Esercito popolare cinese o, per interposta milizia, la polizia locale, provochino una Tienanmen in Statue Square, davanti alla sede centrale della Hong Kong-Shanghai Bank costruita da Sir Norman Foster, dove sono custoditi i soldi di milioni di investitori della Cina comunista. Almeno per ora la polizia locale è stata molto meno violenta di quella di New York con i giovani di Occupy Wall Street.

Il problema naturalmente è il contagio, posto che anche i cinesi continentali siano diventati più democratici che nazionalisti. La contaminazione che tuttavia il partito teme forse è un'altra. La piena democrazia potrebbe col tempo spingere Hong Kong a percorrere la stessa strada indipendentista di Taiwan. Una terza Cina per Pechino sarebbe davvero inammissibile.

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