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Questo articolo è stato pubblicato il 02 ottobre 2014 alle ore 07:00.
L'ultima modifica è del 02 ottobre 2014 alle ore 08:29.
«A questo punto manca solo che Merkel si sistemi di persona nelle istituzioni comunitarie», ironizza un alto funzionario europeo. Convinto che il cancelliere tra qualche anno lascerà Berlino per Bruxelles.
E convinto tra l'altro che sarà il prossimo presidente del Consiglio europeo. Fantaeuropa? Chissà.
"Deutschland, Deutschland über alles": il predominio sempre più capillare dei tedeschi nelle istituzioni comunitarie è diventato nel frattempo il tema del giorno a Bruxelles. Se ne parla con fastidio, intolleranza, malcelato rancore o pura rassegnazione.
C'è chi minimizza: «Da sempre l'occupazione delle istituzioni Ue ha un andamento ciclico: in principio i francesi a tappeto, poi gli inglesi fino a una decina di anni fa e ora i tedeschi a modo loro, con metodo e precisione teutonica». C'è chi denuncia una presenza sempre più soffocante e tentacolare. Chi riconosce che «è inevitabile, sono i più bravi». Sylvie Goulard, eurodeputata liberale francese, invece avverte: «Troppo nazionalismo nelle istituzioni comuni è pericoloso».
Che il nuovo quinquennio europeo si annunci più germano-centrico che mai lo dice la meteorologia politica e ancora di più la mappa del potere Ue: quello emerso, che aggiunge lustro a chi lo possiede, ma soprattutto quello sommerso, che si vede poco ma decide silenzioso nei corridoi e controlla le vere leve che fanno e disfano le politiche comuni.
Non a caso oggi di incarichi di prestigio, e non tra gli eccellenti, la Germania ne ha tre: presidenza dell'Europarlamento con Martin Schulz, della Banca europea degli investimenti (Bei) con Werner Hoyer e del Fondo salva-Stati (Esm) con Klaus Regling.
Alla testa del Consiglio europeo il polacco Donald Tusk. Alla guida della nuova Commissione il lussemburghese Jean-Claude Juncker. A quella dei ministri dell'Eurogruppo l'olandese Jeroen Dijsselbloem. Allora equilibri intraeuropei ragionevoli, mal di pancia e allarmi pretestuosi?
Anche se un abile gioco di specchi sembra fatto apposta per rassicurare, la struttura del potere e la cultura dei suoi protagonisti racconta un'altra storia. A prima vista, infatti, non solo Berlino non vanta stelle di prima grandezza a Bruxelles ma il suo commissario, Gunther Oettinger, appare addirittura degradato nel portafoglio: dall'Energia all'Economia digitale.
Doppio errore. Perché i ritardi nella digitalizzazione dell'Europa sono un gap strategico da colmare, una nuova grande frontiera di sviluppo.
E perché, sia pure senza troppo entusiasmo, la Merkel è il grande elettore di Jean-Claude Juncker, rigorista convinto ma non un estremista, meno che mai un falco. Falchi rinomati sono però il finlandese Jyrky Katainen e il lettone Valdis Dombrovski, due dei suoi sette vice-presidenti che controlleranno le politiche macro-economiche, di bilancio, sviluppo, occupazione, industria, ricerca, mercati finanziari, mercato unico, trasporti, energia, politica regionale. In breve tutti i tasti in grado di stimolare la crescita o di lasciarla, come oggi, in balia di una congiuntura negativa.
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