
Armiamoci e partite, è una frase italiana diventata proverbiale per stigmatizzare l'atteggiamento di chi si sottrae ai rischi di un’azione da lui stesso promossa o perorata pur esortando gli altri a intraprenderla. Risuona nelle orecchie del benpensante come un ossessivo ritornello di stagione ogni qual volta si decide un’azione militare.
Armatevi e partite: è questo il vero motivo per cui vengono adottate decisioni prive di senso, perché sostanzialmente prive anche di morale, il che significa non conoscere le situazioni o addirittura occultarle. Ma siccome i nostri politici, pur ignorando quotidianamente la politica estera, considerata una sorta di ancella povera delle istituzioni, sono piuttosto abili, sanno sempre come cavarsela e invocano regolarmente il cappello internazionale per giustificare un intervento di cui di solito non conoscono la portata sia in termini politici che militari.
Per questo quando tornano le bare dei soldati, come è avvenuto in Afghanistan e in Iraq, possono presentarsi senza vergognarsi troppo alle cerimonie che precipitano il Paese nel lutto nazionale. Un fastidioso profluvio di retorica che non aiuta a decidere per il meglio e che fuori dai nostri confini risulta incomprensibile.
Se si decide di mettere piede in Libia, naturalmente con la patente dell'Onu, dell'Europa o della Nato (meglio dell'Onu visto che conduce i negoziati tra le fazioni), bisogna anche sapere cosa ci aspetta. E a maggior ragione visti i precedenti coloniali in Libia e quanto accaduto nel 2011. Dopo i raid promossi dalla Francia e della Gran Bretagna, appoggiati dai Cruise americani, anche l'Italia entrò nella missione: una decisione non di poco conto visto che sei mesi prima ricevevamo Gheddafi in pompa magna a Roma firmando (con la ratifica a grande maggioranza del Parlamento) un trattato di cooperazione e sicurezza che ci impegnava a salvaguardare il regime.
Accettammo allora le decisioni altrui per non restare ai margini e difendere gli interessi economici ed energetici ma si trattò comunque di una clamorosa virata della politica estera italiana in Nordafrica che non è passata inosservata. Ora è sulle intenzioni del governo italiano che ruotano le polemiche e il dibattito, come al solito confuso. Il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha fatto sapere che «l'Italia è pronta a guidare in Libia una coalizione di paesi dell'area, europei e dell'Africa del Nord, per fermare l'avanzata del Califfato arrivato a 350 chilometri dalle nostre coste».
Queste dichiarazioni dopo quelle del ministro degli Esteri Gentiloni vanno soppesate perché si tratta di informazioni importanti: ci sarebbe quindi la possibilità di formare una coalizione a guida italiana. Sarebbe, se risultasse vera, una buona notizia perché vorrebbe dire che questa volta non siamo al traino di qualcuno e possiamo decidere insieme agli altri alleati obiettivi e metodi di intervento.
Ma dobbiamo sapere anche un'altra cosa: una volta messi gli anfibi sul terreno bisogna restarci, e forse anche a lungo, per stabilizzare la Libia. I rischi di perdite tra i soldati in scontri e attentati sono alti. E sicuramente questi rischi erano inferiori mesi fa, quando da più parti si invocava un intervento internazionale in Libia. La missione militare comporta un costo umano, politico ed economico che i Paesi schierati contro Gheddafi nel 2011 non vollero accettare lasciando che il Paese sprofondasse nell'anarchia e nel caos dove adesso si è infilato il Califfato. Ma proprio di questo oggi si parla: saldare un conto aperto lasciato in sospeso da altri. Armiamoci e partite, quindi, sapendo bene però dove si va e a quale prezzo.
© Riproduzione riservata