Nel mondo, sui mercati «domina l’incertezza» e si cercano «risposte di lungo periodo basate sui fondamentali». Nelle decisioni economiche «l’impatto della geopolitica è molto aumentato e basta che uno faccia la lista degli elementi turbativi per capire che questo è diventato un fattore-chiave». Alla politica spetta «il compito di togliere di mezzo le incertezze» e il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, in questa estate caldissima fra Brexit, stress test delle banche e rallentamento della crescita, rimette al centro l’azione del governo. Una strategia c’è», dice, parlando di una «legge di bilancio che dovrà avere poche misure sulle quali concentrare le risorse, che sono limitate, con l’obiettivo di dare impulso a crescita e occupazione».
Al centro della strategia, il rilancio degli investimenti pubblici e privati e «misure per favorire l’aumento delle produttività delle imprese». La strategia c’è anche quando si parla di banche. «È una strategia di mercato» e Padoan rivendica «il ruolo di facilitatore del governo» nel piano per Mps, come già era accaduto per il fondo Atlante. Il ministro e il presidente del Consiglio hanno avuto un ruolo anche nella formazione della cordata guidata da Jp Morgan e Mediobanca per il Monte? «Il governo parla con i soggetti dell’economia in un dialogo continuo e soprattutto in momenti delicati come questo, ci mancherebbe, il Paese ha una regola non scritta in cui ci si scambiano le idee e poi ognuno agisce secondo le proprie competenze». Nessun fantasma del 2011, «non c’è senso di urgenza neanche nei mercati che hanno avuto una reazione da manuale agli shock di queste settimane, primo impatto molto violento all’inizio e poi orientato a una convergenza verso valori di riferimento basati sui fondamentali». Comunque, oggi «l’intervento di backstop pubblico non serve». Quello che serve invece, e il governo ci sta lavorando per inserirla nella legge di bilancio, «è agevolare i processi di ristrutturazione delle banche, che hanno conseguenze anche sul personale».
Ministro Padoan, la strategia del governo sulle banche è passata anche da un lungo confronto con l’Unione europea per creare lo spazio a un eventuale sostegno pubblico straordinario alle situazioni di difficoltà, Mps in testa, per esempio con una ricapitalizzazione precauzionale. La trattativa non sembra essere arrivata al traguardo: è una partita chiusa?
L’ intervento di backstop pubblico non serve, Mps è un’operazione di mercato in cui il ruolo dello Stato è concentrato nella garanzia sulla cartolarizzazione di crediti in sofferenza (la Gacs). In queste settimane abbiamo esaminato tutti gli scenari che si potrebbero verificare e penso che questo rientri pienamente nei compiti di due diligence del governo. Abbiamo stabilito fin dall’inizio della nostra azione, oltre due anni fa, la prassi di un dialogo continuo con le istituzioni europee, come hanno sempre fatto anche gli altri Paesi. È una prassi normale, ed è bene che ora ci sia anche da noi.
Lei esclude un intervento pubblico diretto, quindi?
Un intervento come quelli fatti in passato in altri Paesi non è più possibile. La Bad bank per gli Npl non si può fare, perché porta immediatamente all’applicazione del bail in, e più in generale se il governo mette dei soldi fuori dai casi eccezionali consentiti dalle normative europee si entra subito nel campo degli aiuti di Stato. Chi si lancia in proposte senza tenere conto di questo contesto non conosce del tutto le regole oppure non è pienamente in buona fede.
Rischiamo un’estate come quella del 2011?
Il paragone con il 2011 è del tutto inadeguato perché non ci sono, come allora, problemi di sostenibilità del debito. E quel senso di urgenza non si avverte neanche sui mercati.
Non ci sono, allora, le banche italiane nel mirino dei mercati? Qual è la reale condizione del sistema del credito?
Gli stress test hanno detto oggettivamente che la gran parte delle banche in caso di scenario avverso è resiliente. Questo vale per 4 dei 5 istituti di credito italiani sottoposti al test, che hanno mostrato valori anche sopra la media europea, come accaduto a Intesa. Da questi risultati discende logicamente il fatto che il sistema bancario italiano non è diverso dagli altri e non è quindi fonte di preoccupazione per l’Europa.
Si ha l’impressione che una buona parte della questione bancaria europea sia creata da un sistema di vigilanza troppo complesso e da un’unione bancaria incompleta, frenata in tutte le ipotesi di “condivisione del rischio” fra Paesi.
Non dico nulla di misterioso se ricordo che la Germania, con altri Paesi, sostiene che prima il rischio va ridotto, poi condiviso. In linea con questa impostazione sono le due velocità del processo di unione bancaria, che ha posto tempi stretti per l’entrata in vigore del bail in e degli obblighi di rafforzamento del capitale e un calendario più lento sull’entrata a regime del fondo di risoluzione unico. All’inizio è stato chiesto alle banche di rafforzarsi, e gli stress test hanno dimostrato i livelli di resilienza del sistema che sono stati raggiunti. Tutto questo è avvenuto all’interno di regole diventate sempre più stringenti sul fronte della sorveglianza unica, in un processo nel quale però la garanzia unica dei depositi rimane lontana. Noi pensiamo invece che condividere i rischi aiuti anche a ridurli, e questo confronto sarà al centro dei prossimi passi dell’Unione europea.
L’ultima conferma di questa rigidità arriva dalla posizione di Elke König, che guida il comitato di risoluzione unico: sostiene che i problemi non si risolvono mettendo in discussione le regole e che la risoluzione di una banca, se ben operata, non ha effetti sistemici.
Non commento le dichiarazioni. Dico però che le nuove regole su bail in e burden sharing hanno ingenerato in vari Paesi reazioni che non erano state ben previste. Va osservato che una distinzione rigida fra crisi singola e implicazioni sistemiche è possibile nella teoria, ma nella pratica esiste sempre qualche forma di correlazione fra le dinamiche di un singolo istituto e gli effetti sul sistema, anche se si tratta di banche piccole. Le regole ci sono ma sono nuove, e dobbiamo applicarle con cautela perché non ne conosciamo tutte le implicazioni operative. Anche nel nuovo contesto di regole, però, ci sono margini importanti, che devono essere utilizzati.
Per esempio?
Il primo esempio è rappresentato dalla Gacs, la garanzia pubblica sulle cartolarizzazioni delle tranche senior dei crediti in sofferenza. La Gacs è uno strumento pubblico, ma è stato costruito in modo perfettamente compatibile con la normativa europea sugli aiuti di Stato e anche per questa ragione c’è voluto del tempo a realizzarlo.
All’inizio, però, molti giudizi sono stati piuttosto freddi sulla Gacs.
La reazione iniziale ha rappresentato un classico esempio del benaltrismo italiano, secondo il quale la soluzione in sé è buona ma servirebbe, appunto, «ben altro». Mi permetto di dire che conosciamo bene i termini del problema, ma quando si utilizzano soluzioni di mercato bisogna far decidere al mercato e allo stesso tempo rispettare i vincoli imposti dal nuovo quadro normativo.
Torniamo agli strumenti di mercato: come sta procedendo la raccolta di fondi per Atlante 2?
Crediamo molto in questo strumento, come dimostra l’investimento da parte della Cassa depositi e prestiti, che è minoritario perché Atlante si colloca pienamente all’interno del mercato. L’idea è nata intorno a due missioni, la ricapitalizzazione come quella avvenuta per Veneto Banca e Popolare di Vicenza e la gestione dei non performing loans. Su quest’ultimo punto non è da trascurare un vecchio dilemma: le banche hanno bisogno di strumenti collettivi di gestione delle difficoltà ma sono restie ad adottarli. Atlante è uno strumento di intervento collettivo degli operatori che consegue un risultato importante: facilita la creazione di un mercato efficiente di gestione dei crediti deteriorati e quindi aiuta anche le banche che non partecipano al fondo. Queste, quindi, ne beneficiano come free rider, che in italiano si potrebbe tradurre come «scroccone».
Atlante, però, rimane uno strumento straordinario, che nasce in risposta a un problema specifico. Esiste lo spazio per soluzioni strutturali delle sofferenze in Italia oppure ci si deve rassegnare a una rincorsa delle emergenze?
Nel panorama degli Npl convivono oggi un fattore ordinario e uno straordinario. Il dato straordinario è nella crescita registrata dalla mole dei crediti deteriorati per effetto del lungo periodo di crisi economica, ma una quota di sofferenze nei bilanci delle banche è fisiologica. Per ridurre questa seconda parte servono soluzioni strutturali, e noi le abbiamo messe in campo per esempio con le misure di accelerazione delle procedure concorsuali e il patto marciano, che sono molto efficaci. La critica che viene fatta è che si tratta di misure forward looking, che riguardano cioè solo le operazioni successive alla loro entrata in vigore, ma non è del tutto vero perché se le parti sono d’accordo si possono utilizzare anche per i vecchi contratti. Di più non era possibile fare, perché un intervento retroattivo del governo su contratti privati già stipulati sarebbe stato evidentemente contro la Costituzione.
Ma il sistema delle banche italiane ha un problema di competitività? Ha bisogno di un processo di ristrutturazione?
Certo, perché i modelli bancari nel mondo stanno cambiando, l’attività tradizionale è sempre meno rilevante nella dinamica dei profitti che invece puntano in misura crescente sulle attività di consulenza e investimento. Siamo convinti, quindi, che le banche italiane abbiano bisogno di un processo di ristrutturazione in senso positivo, e per questa ragione abbiamo approvato la riforma delle popolari e del credito cooperativo per aiutare il sistema a rimanere al passo con la competizione globale.
La competitività, però, è anche un problema di costi.
Le banche devono naturalmente migliorare i propri modelli di business, e questo processo può avere implicazioni anche sul personale, che si possono però affrontare senza panico e senza nessuna urgenza particolare. Il governo sta valutando in che modo è possibile aiutare questi processi: abbiamo già fatto con il decreto legge 59 del maggio scorso un intervento sugli ammortizzatori sociali, e ci torneremo per capire bene come migliorarlo. Va detto che non è possibile pensare a regole su misura per un solo settore, perché questi si tradurrebbero in un aiuto di Stato, e occorrono invece regole generali che però hanno un costo maggiore per il bilancio pubblico.
Nell’informativa al Parlamento di mercoledì, lei ha indicato tra le cause della situazione attuale anche la «cattiva gestione» e le «pratiche illecite» da parte di alcuni manager. Quanto è preoccupante il fenomeno?
Sicuramente in passato ci sono stati casi eclatanti, e ce ne sono anche in tempi recenti, che segnalano tra i problemi anche i casi di cattiva gestione e di violazione di leggi. Per questi ultimi naturalmente c’è prima di tutto la magistratura, ma a livello più generale occorre valutare certamente gli aspetti normativi, ma anche l’esigenza di un atteggiamento responsabile degli amministratori delle banche. Loro sono i primi a conoscere le dinamiche delle sofferenze, e in caso di crescita di queste sofferenze possono reagire in modi diversi a seconda anche del loro grado di responsabilità. Ora, con l’informatizzazione delle pratiche e il nuovo flusso dei dati puntuali a Banca d’Italia che partirà a settembre, ci sono le condizioni per un monitoraggio completo e tempestivo dei fenomeni.
Ma alla luce di tutto questo, c’è in Italia un problema di tutela del risparmio privato?
Sicuramente esiste un problema di educazione finanziaria, nel senso di consapevolezza del risparmiatore: chi investe non deve leggersi manuali di finanza, ma deve ottenere un’informazione il più possibile completa e trasparente da parte di chi gli propone l’operazione, e questo risultato va conseguito con la semplificazione dei prospetti ma anche favorendo la presa di coscienza da parte degli operatori. Si tratta di questioni non nuove, che però diventano particolarmente acute in questa fase di transizione al regime del bail in.
Accanto agli stress test, l’altro colpo alla stabilità è arrivato dalla Brexit. Come giudica la reazione dei mercati e quella dell’Unione europea?
La risposta dei mercati agli shock, Brexit e stress test, è stata, per così dire, “da manuale”, nel senso che come ci si attendeva è stata particolarmente violenta nell’immediato per poi reindirizzarsi verso una convergenza su valori di riferimento più stabili. Anche la reazione dell’Unione europea riflette un fatto noto, e cioè che spesso l’atteggiamento della Ue è la somma di risposte nazionali non sempre convergenti. L’esperienza mi dice che abbiamo appena cominciato a discutere di una procedura che non sarà semplice, perché si tratta di definire sia le modalità di uscita del Regno Unito sia i nuovi rapporti che comunque dovranno essere instaurati. Rilevo comunque che giovedì Bank of England ha preso decisioni molto importanti perché indicano di fatto un cambio di scenario e mostrano previsioni di impatto molto serie.
La Brexit impatta però anche sulla ripresa italiana, che continua a essere difficile come mostrano i dati di ieri sulla flessione dello 0,4% nella produzione industriale. La nota di aggiornamento al Def a settembre rivedrà al ribasso le stime di crescita: con quali effetti sugli obiettivi di debito e deficit?
La caduta della produzione industriale riflette innanzitutto l’accumularsi di shock come la Brexit in un contesto globale che si è andato indebolendo. È un dato che non ci piace e ci sprona a fare di più per la crescita ma bisogna guardare al medio termine e da questo punto di vista sono molto incoraggianti i dati sull’occupazione. Ho sempre detto che da quest’anno il debito avrebbe cominciato a scendere e faremo di tutto per centrare questo obiettivo anche se il contesto è cambiato e la crescita del prodotto ma soprattutto dell’inflazione si è rivelata molto inferiore alle attese. Il dibattito sarà ulteriormente ridotto grazie ai proventi delle privatizzazioni, come la seconda tranche di Poste in arrivo e l’operazione Enav, che si è rivelata un grande successo anche se il mercato sembrava indicare prospettive contrarie.
E sul deficit? Ci sono margini per rivedere verso l’alto l’obiettivo 2017 dell’1,8% nel rapporto deficit/Pil già concordato con l’Unione europea? Vi darebbe un po’ di ossigeno per la manovra.
Quando questo target è stato indicato c’era uno scenario diverso, il rallentamento, come dicevo, è stato maggiore del previsto e bisognerà tenerne conto. Si aggiunga che quando c’è un rallentamento maggiore, a fronte di un saldo strutturale invariato, i saldi nominali sono peggiori. Questo naturalmente non toglie che in un Paese ad alto debito come il nostro la finanza pubblica deve continuare il percorso di consolidamento. In questo quadro, la legge di bilancio avrà vincoli stretti e dovrà concentrare le risorse su poche misure molto centrate orientate a favorire la crescita e la produttività.
Fra queste poche misure della stabilità per la crescita, a chi va la priorità?
Agli investimenti, pubblici e privati. Sui primi, in realtà, è sempre meno un problema di risorse, e sempre più un problema di implementazione. Molte riforme sono state fatte e gli investimenti scontano un temporaneo effetto paradossale di rallentamento perché gli enti pubblici devono adattarsi al nuovo codice sugli appalti e al pareggio di bilancio che ha sostituito il patto di stabilità interno. In ogni caso l’attuazione degli investimenti va accelerata, lo dico prima di tutto a me stesso e all’amministrazione, perché hanno un moltiplicatore elevato in termini di prodotto interno lordo e creano infrastrutture e sviluppo. Con la Presidenza del Consiglio e con il collega Delrio, con Ferrovie, Anas e gli altri soggetti più importanti ci sono tavoli tecnici continui, stiamo studiando gli interventi possibili per ridurre i tempi di attuazione.
E per gli investimenti privati?
Un’impresa che deve investire, così come un cittadino che decide di comprare casa, ha prima di tutto bisogno di certezze, e questo aspetto rimanda al ruolo della politica di cui parlavamo prima. Stiamo però studiando anche una serie di nuovi interventi: non è ancora tempo di entrare nel dettaglio delle singole misure, ma saranno focalizzate sull’obiettivo di spingere la produttività e la competitività delle imprese.
In queste settimane si è parlato di una riconferma nel 2017 del superammortamento per i beni strumentali acquistati dalle imprese.
Il super-ammortamento sta funzionando bene ed è saggio puntare su ciò che ha dimostrato di portare risultati.
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