La sorpresa (amara) l'abbiamo vissuta sulla nostra pelle, quando abbiamo visto sfumare il bronzo olimpico di Matteo Marconcini, sconfitto nella finalina del torneo di judo categoria 81 kg da Sergiu Toma, capace così di conquistare la seconda medaglia olimpica nella storia degli Emirati Arabi Uniti (la prima, vinta da Ahmed Al Maktoum, arrivò ad Atene 2004 nella doppia fossa olimpica). Fatto sta però che Toma è tutt'altro che il rampollo di una famiglia di emiri, magari appassionatosi alle arti marziali grazie ai frequenti contatti con l'Estremo Oriente.
Sergiu Toma è in realtà nato 29 anni fa a Chisinau, in Moldavia, nazione per la quale aveva già partecipato ai Giochi di Pechino2008 e Londra2012. Il neo-medagliato olimpico, d'altra parte, non è l'unico judoka moldavo nella rappresentativa della piccola ma potente nazione del Golfo, visto che ad affiancarlo ci sono anche Victor Scvortov and Ivan Remarenco, anch'essi ormai “arabi e uniti” a tutti gli effetti, tanto da rappresentare tutti insieme l'intera nazionale di judo dell'emirato.
Il caso Turchia
Ancor più eclatante il caso della squadra turca di atletica leggera, protagonista ai recenti Europei di Amsterdam. La mezzofondista Yasemin Can, 19 anni, oro nei 5mila e 10metri, è in realtà una keniana che – si dice – abbia fatto anche una discreta fatica a memorizzare il proprio nome da cittadina del Bosforo. Si chiamava (e in fondo si chiama ancora, perché di fatto kenyana lo è ancora) Vivian Jemutai. È diventata turca soltanto a marzo ma vive ancora in Kenya, si allena in Kenya e non parla, appunto, una sola parola di turco. Ma quello di Yasemin/Vivian non è un caso isolato nel Paese della Mezzaluna, che nella rassegna ha ottenuto successi certo graditi al “sultano” Erdogan: con la stessa maglia gareggiano anche altri sette kenyani, due giamaicani, un etiope, un cubano, un sudafricano, un azerbaijano e persino un ucraino.
Raccontata la vicenda, una postilla è d'obbligo: quello turco è solo un esempio, perché la stessa Gran Bretagna, madre nobile dello sport moderno, ha una lunga storia di campioni facilmente “naturalizzati” dai Paesi del Commonwealth, dall'atleta sudafricana Zola Budd al tennista canadese Greg Rusedski. Insomma, Paese che vai, naturalizzato che trovi. Ne volete la prova? Pensate alla Russia. I cestisti americani JR Holden e Rebecca Hammon, naturalizzati, sono diventati capitani delle loro rispettive squadre di pallacanestro russe. La pattinatrice Yuko Kawaguchi, che è nata in Giappone, ma adesso parla perfettamente il russo, è diventata una celebrità nazionale dopo aver rappresentato la Russia ai Giochi Olimpici di Vancouver.
Regole diverse
Come è possibile? Di fatto ogni federazione internazionale ha regole proprie, che si sommano alle differenti normative dei vari Paesi per il rilascio di cittadinanza e passaporto. Prendiamo ad esempio proprio il caso dell'atletica leggera: la Iaaf impone ben tre anni di stop ad un atleta che cambia cittadinanza, ma esistono diverse eccezioni che permettono di ridurre questo periodo, che anzi viene cancellato del tutto se l'atleta risiede nel nuovo Paese per i tre anni precedenti la competizione in cui esordirà sotto la nuova bandiera. Bisogna poi considerare che finora stiamo parlando di atleti che hanno già rappresentato la loro nazione d'origine in competizioni internazionali; in caso contrario, questo periodo di “quarantena” si riduce a un solo anno. Da qui il rischio di “naturalizzazione selvaggia” di molti atleti adolescenti, specialmente africani, cui agenti e promoter senza scrupoli, ma anche scaltri dirigenti federali, fanno ottenere ben presto una seconda cittadinanza: se nel mucchio dovesse esserci il campione, eccolo bello e pronto a vestire la casacca della sua “nuova” nazione, senza incorrere in stop regolamentari e pronto subito a “sfornare” medaglie, titoli e premi per la nuova nazionale di appartenenza.
Passaporti facili sottocanestro
Altro caso interessante è rappresentato dal basket, e dalla facilità con cui la doppia cittadinanza viene ottenuta da giocatori statunitensi (basti pensare che appena il 30% di cittadini statunitensi ha un passaporto valido per l'espatrio, percentuale che aumenta decisamente tra i cestisti…). L'ex Nba Trey Johnson, visto anche a Teramo e Biella, ha passaporto qatariota. Il Qatar non è nuovo a naturalizzazioni-lampo in tutti gli sport: Stephen Cherono, brillante mezzofondista keniano, diventò Saif Saaeed Shaheen e conquistò due ori ai Mondiali di atletica del 2006 per la sua nuova nazione. In cambio della naturalizzazione, si disse all'epoca, aveva ricevuto un milione di dollari (circostanza sempre smentita dall'atleta). Lo stesso presidente della federazione cestistica del Qatar, Sheikh Saud Bin Ali Al-Thani, si dimise dalla sua carica (ma non da quella di presidente della federazione asiatica…) dopo le irregolarità riscontrate nei documenti del giocatore congolese naturalizzato Targuy Ngombo, seconda scelta Nba per i Dallas Mavs.
L'ultima frontiera si chiama Cotonou, dal nome della città del Benin in cui, nel 2000, fu firmato un accordo tra Unione Europea e Acp, acronimo di Africa-Caraibi-Pacifico, ovvero l'organizzazione che raggruppa 79 paesi in via di sviluppo, la maggior parte dei quali nell'Africa a Sud del Sahara. Una delle clausole dell'intesa garantiva una più libera circolazione dei lavoratori dal Sud del mondo verso il Nord più ricco. La sua applicazione cestistica sta in una regola, approvata prima in Spagna e valida anche in Italia, che equipara i giocatori con passaporto di un paese Acp ai comunitari. E così, insieme ai Bosman (dal nome del calciatore belga che con una causa internazionale cancellò il tradizionale concetto di “stranieri” nello sport), ora ci sono i Cotonou. Un esempio per intenderci: CJ Wallace, ala-centro visto a Capo d'Orlando, Treviso, Milano e al Barcellona, firma contratti in Europa da giocatore comunitario grazie a un passaporto del… Congo!
Casi limite
Oltre a indignarsi, di “passaporti facili” si può anche sorridere. Sempre sottocanestro, basti pensare al matrimonio che l'ala centro americana Shaun Stonerook (ex di Cantù e Siena) fece con la cognata del vicepresidente di Cantù, di 17 anni più grande, per ottenere la cittadinanza italiana (salvo poi separarsi, senza rimpianti e lacrime, un anno dopo…); a un altro giocatore di Siena, Romain Sato, capitò invece di passare una notte in cella durante una trasferta in Slovenia con l'accusa di avere un passaporto centroafricano falso. Peccato però che lui centroafricano lo sia davvero.
Vittorie tricolori
Per concludere, e come dicevamo, va ben sottolineato che anche in Italia ci sono atleti e campioni “naturalizzati”: si pensi ad esempio alla cubana Grenot, bicampionessa europea sui 400 metri, che ha acquisito la cittadinanza italiana per matrimonio. Ma la normativa in materia nel nostro Paese è ancora molto rigida: per i cittadini di un Paese extraeuropeo, ad esempio, salvo in caso di matrimonio, sono necessari ben 10 anni di residenza stabile in Italia per avere il diritto di richiedere la cittadinanza italiana, senza calcolare tutte le trafile burocratiche che seguono, che allungano quindi l'attesa per la naturalizzazione effettiva.
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