Lifestyle

«Non dire gatto...» storia e biografia del fenomeno…

  • Abbonati
  • Accedi
libri

«Non dire gatto...» storia e biografia del fenomeno Giovanni Trapattoni

Nel calcio dei social e del chiacchiericcio, il fischio del Trap resta un eco nel vento, un pilastro epico e sostanziale da cui ripartire. Quella di Giovanni Trapattoni da Cusano Milanino, “Giuanin” per il suo maestro Nereo Rocco, è la storia dell’allenatore più vincente del calcio italiano. La spettacolare cammino di un uomo che ha dato e fatto tutto per vincere, senza mai uscire dal seminato della semplicità. Una vita straordinaria, quella del Trap, nata sotto le bombe degli americani, in un piccolo paese alle porte di Milano. Là dove c’era l’erba. E la disperazione della guerra faceva a pugni con la gioia del poco. Giovanni, che alle parole ha sempre preferito il verbo della concretezza, ha vinto tutto, dappertutto. Come giocatore, come allenatore. Come padre putativo di un football arcigno, eroico, profondamente umanizzato. Catenacciaro, difensivista per gli irriducibili dell’estetica, ma solo all’apparenza.

Giovanni voleva il calcio fin da bambino, ma il pallone come sogno, a quei tempi, era un lusso. Un affronto familiare. E così, ancora ragazzino, per non dare un dispiacere al padre che vedeva il football come fumo negli occhi («Sudi e ti prendi la tubercolosi!»), finiti gli allenamenti con il Milan andava a lavorare in cartotecnica. Fu l’inizio di tutto. Della leggenda senza fine (occhio al futuro…), di 60 anni di calcio che il Nostro racconta a quattro mani con l’amico- giornalista Bruno Longhi nel libro «Non dire gatto. La mia vita sempre in campo, tra calci e fischi», edito da Rizzoli. Un’opera romantica, avvolgente, che comincia dalle fughe a quattro anni nei campi («arrivavano gli aerei a bombardare e mia madre non smetteva di pregare a voce alta dicendo le ave marie una dietro l’altra guardando verso l’aereoporto di Bresso»), fino alla interminabile sfilza di trionfi nazionali ed internazionali.

Quattordici anni da giocatore del Milan, conditi con due Scudetti, due Coppe Campioni e una Intercontinentale. Poi il Trap allenatore. Cha ha reso grande la Juventus di Causio, Tardelli e Platini in un decennio d’oro negli Anni 70-80. Quindi la stagione alla guida dell’Inter di Zenga e dei tedeschi, con lo Scudetto dei record (1988-89). Poi ancora un titolo tedesco con il Bayern Monaco (1996-97), in tempi in cui allenare all’estero era cosa da pionieri. Trapattoni si è ripetuto anche in Portogallo e in Austria. Ed è facile immaginare che il ragazzo di Cusano Milanino avrebbe vinto qualcosa pure in Nazionale, se non fosse stato defraudato di un Mondiale nel 2002 (complice l’indimenticabile arbitro Moreno) e di un Europeo nel 2004 (con l’indigesto biscotto di Svezia-Danimarca).

Giovanni si è fatto amare ovunque. Per il suo entusiasmo, la grinta, la dialettica inimitabile. Per il suo imperioso fischio dalla panchina. Sempre accompagnato dalla frase-mantra «Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco». Un inno alla prudenza, un amuleto. Un modo semplice ed immediato per ricordare con orgoglio le proprie origini popolari. Il Trap esordisce in serie A nel Gennaio 1960. A Ferrara, contro la Spal. Il Milan vince 3-0 con due goal di Altafini e un rigore del vecchio Liedholm. «A me toccò fare il terzino destro e marcare un argentino piuttosto in gamba, ex Inter e ormai bandiera di quella Spal, Oscar Massei». Il Milan diventa subito una famiglia per Trapattoni. «La mia famiglia alternativa. Piena di gente strana, ma strana forte. Faceva quasi tutto Gipo Viani, il direttore tecnico. Era il John Wayne della situazione. Camminava come un cowboy. Un burbero con chi se lo meritava, una pasta d’uomo con i più generosi».

E poi al Milan arrivò Nereo Rocco. «Sapevamo che alla fine Viani se lo sarebbe preso. Lui e il vice Bergamasco crearono un gruppo meraviglioso. Del “Paron” triestino, con cui vincemmo subito lo scudetto nel ’62, anno dell’esplosione di Gianni Rivera, apprezzavamo il carattere brontolone, un’umanità fuori dal comune. Rocco mi chiamava “Giuanìn”, mi ripeteva sempre che ero nato vecchio. Gli piaceva bere qualche bicchiere, quello sì. Ma era una piccola debolezza in confronto alla forza che ci trasmetteva». Nel testo scritto con Bruno Longhi, l’ex Ct svela tanti retroscena. Il rito dell’acqua santa, i colloqui più divertenti con campioni come Platini. La sua carriera di allenatore cominciò, appena trentaquattrenne, nel Milan. Subentrò come traghettatore a Cesare Maldini nell’ultima parte della stagione 1973-1974, guidando i rossoneri anche nella finale di Coppa delle Coppe persa con il Magdeburgo.

Nell’estate del 1976 Giampiero Boniperti lo chiamò sulla panchina della Juventus. Giovanni divenne presto l’allenatore più titolato, ammirato. Vinse immediatamente lo scudetto, ottenendo nell’occasione il record di punti nei campionati italiani a 16 squadre (51 su 60, nell’epoca dei 2 punti a vittoria), assieme alla Coppa Uefa. Il primo, importante, trionfo internazionale nella storia del club piemontese. «Con Boniperti ci intendevamo a meraviglia: era un presidente che sapeva di calcio, ma allo stesso tempo non faceva ombra all’allenatore. Fin dal mio arrivo sulla panchina bianconera la squadra si dimostrò disciplinata e rispettosa. Era il famoso “stile Juventus”. Una cosa che avevo notato subito appena arrivato a Torino era la differenza di gestione della società rispetto al mio vecchio e pazzo Milan. Qui vigeva la riservatezza, non trapelava niente».

“Agnelli mi telefonava alle sei e mezza del mattino e si faceva annunciare dal maggiordomo che, povero diavolo, chissà a che ora doveva alzarsi. La prima volta ci rimasi secco”

 

Arrivato a Torino, l’avvocato Gianni Agnelli invece non lo accolse a braccia aperte. Era perplesso. Un tecnico trentenne, solo tre anni più di Dino Zoff. «Adesso chiamiamo i ragazzini ad allenare?» credo avesse detto l’Avvocato a Boniperti, appena saputo che il prescelto ero io. Con Agnelli il feeling scattò presto. «Mi telefonava alle sei e mezza del mattino, anzi non mi chiamava lui direttamente, si faceva annunciare dal maggiordomo che, povero diavolo, chissà a che ora doveva alzarsi. La prima volta ci rimasi secco. Dormivo, avevo la sveglia puntata alle sette. Poi alla seconda, terza volta pensai che fosse una sua abitudine e allora cominciai a puntare la sveglia alle sei e venticinque. Mica mi volevo far trovare stordito dall'Avvocato!».

“Berti lo convinsi nonostante si fosse già impegnato con il Napoli. Andai a Salsomaggiore da suo padre, che ne gestiva gli affari. Era un salumiere abile nelle trattative. E io con i salumieri mi trovo bene”

 

A metà Anni 80 il Trap tornò a Milano, nell’Inter di Ernesto Pellegrini. Erano gli anni del Milan stratosferico e sacchiano. Del “sacchismo” rossonero votato all’aggressione degli avversari e degli spazi, revisione accurata del calcio offensivo e totale creato dagli olandesi. Il Trap vinse un memorabile scudetto contro il Napoli di Maradona e Careca e contro gli stessi rossoneri. Impartendo una lezione di calcio “italianista” nel derby di andata vinto per 0-1 con goal di Serena. L’anno dello scudetto dei record (58 punti) venne costruito con una campagna acquisti sontuosa. Arrivarono i tedeschi Mattheus e Brehme, le giovani promesse Bianchi e Berti, l’argentino Diaz. «Berti lo convinsi nonostante si fosse già impegnato con il Napoli. Andai a Salsomaggiore da suo padre, che ne gestiva gli affari. Era un salumiere abile nelle trattative. E io con i salumieri mi trovo bene. Tanto che alla fine pensò che fossi io l’allenatore giusto per Nicola, che all’epoca era molto giovane e andava gestito per via di un carattere estremamente esuberante».

Negli anni '90, dopo il ritorno alla Juventus, Trapattoni sbarcò in Germania alla corte del Bayern Monaco, chiamato da Franz Beckenbauer. Un’esperienza straordinaria che portò lo scudetto e, soprattutto, la celebre conferenza stampa in tedesco- maccheronico del 10 marzo 1998 contro un suo giocatore, Thomas Strunz. «II fatto che uno dei giocatori in questione si chiamasse Strunz rese il tutto più memorabile, almeno in Italia. Strunz, poveretto, aveva un cognome che lo rendeva poco appetibile per i club di casa nostra. Lui continuava a lagnarsi di essere poco considerato e lo faceva soltanto con certi suoi amici giornalisti. La verità è che era sempre infortunato, per colpa sua avevamo perso delle partite. Si ostinava a voler giocare con un’ernia del disco. Quando è così bisogna essere inflessibili e dire no. Ma Strunz insisteva come un bambino, oltretutto a mezzo stampa».

La frase finale di quella conferenza, «Ich habe fertig» – un errore perché venne utilizzato l'ausiliare “haben” (avere) al posto del corretto “sein” (essere) –, è diventata così celebre da essere inserita in un volume di citazioni storiche. Insieme, tra le altre, ad «I have a dream» di Martin Luther King. Roba leggendaria, roba da Trapattoni.

© Riproduzione riservata