«Un errore di traduzione». Così il candidato premier M5S Luigi Di Maio, ieri a Londra per incontrare una platea di investitori internazionali, ha spiegato il misunderstanding sulla sua strategia post-voto, che ha generato più di un equivoco. Ma dietro il giallo nella City si legge con chiarezza la difficoltà, fuori dall'Italia, di capire le reali intenzioni dei partiti, Cinque Stelle compresi, dopo il 4 marzo.
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Il tavolo con gli investitori («Avevamo intorno l'equivalente in miliardi di euro del debito pubblico italiano», ha riferito Di Maio) si è tenuto a porte chiuse in un club privato nell'esclusivo quartiere di Knightsbridge. Una fonte, terminato l'incontro, ha riferito a Reuters come il candidato premier M5S abbia ripetutamente detto che, se non avrà seggi sufficienti per governare da solo, «vede la probabilità di un governo sostenuto da tutti i principali partiti, inclusi i 5 stelle». Incalzata, la fonte ha aggiunto: «Ha detto chiaramente che, se le elezioni porteranno ad uno stallo politico, prevede una maggioranza di governo a quattro costituita da M5s, Pd, Forza Italia e Lega». Larghissime intese, quasi un governo del presidente. Un'apertura che in effetti, se confermata, sarebbe stata una notizia.
Il confine tra larghe intese e accordi programmatici
Ma la smentita è arrivata immediatamente. Prima dall'entourage di Di Maio: «Fake news». Poi dallo stesso leader, via Facebook: «Quanto riportato dall'agenzia Reuters non corrisponde al vero. Agli investitori internazionali incontrati oggi a Londra ho ribadito ciò che ho sempre detto: che il giorno dopo le elezioni, se non dovessimo avere la maggioranza dei seggi, farò un appello pubblico a tutte le forze politiche invitandole a convergere sui temi e sulla nostra squadra di governo, senza alcun tipo di alleanze, inciuci o scambi di poltrone di governo».
Le incognite dello scenario
È probabile che questo scenario, ai rappresentanti di società e fondi d'investimento, soprattutto statunitensi e britannici, sia risultato ostico da comprendere. Convergere significherebbe per gli altri partiti accettare di sostenere un governo M5S a guida Di Maio? O ci sono altre possibilità? Fino a che punto i pentastellati potrebbero spingersi pur di arrivare a Palazzo Chigi? E che cosa potrebbe indurre il capo dello Stato Sergio Mattarella a conferire il mandato esplorativo al capo politico dei Cinque Stelle? Non basta, infatti, che il Movimento il 4 marzo risulti il primo partito. Dovrà dimostrare di essere in grado di costruire una maggioranza, e al contempo non dovranno emergere maggioranze alternative più solide, ovvero non ancorate a mere convergenze su alcuni punti del programma. Ipotesi per ora lontana, se si guarda ai sondaggi sulle coalizioni di centrosinistra e centrodestra. Geografie diverse, come un patto Pd-Fi supportato dai vari cespugli centristi, sono anche’esse tutte da verificare in base agli esiti del voto. Quel che conta, per Di Maio, è garantire in Italia e all’estero che «il M5S non lascerà il Paese nel caos», ma soprattutto parlare a tutti perché Mattarella intenda.
Le rassicurazioni sul programma economico
Di certo il viaggio nella City, tutto teso a rassicurare i mercati sulla nuova faccia responsabile e moderata del Movimento, ha involontariamente fatto detonare le incognite che aleggiano sulle elezioni, con il Rosatellum che non aiuta ad assicurare governabilità. Ma è comunque servito a Di Maio e all'economista Lorenzo Fioramonti che lo accompagnava a illustrare agli investitori i cardini del programma, che saranno ribaditi oggi nell'incontro con gli imprenditori italiani nella sede di Assolombarda a Milano: la volontà di ridurre i tempi della giustizia, anche trasferendo personale da altri enti della Pa ai tribunali; il progetto "400 leggi da abolire" per la semplificazione e la sburocratizzazione; la fedeltà all'Europa e all'eurozona. La retorica anti-euro è stata archiviata del tutto. Di Maio ha ribadito l'intenzione di procedere a una spending review da 30 miliardi e a una revisione delle tax expenditures da 40 miliardi per liberare risorse per investimenti «ad altro moltiplicatore». Ma ha addirittura detto di volerli concordare con Bruxelles e ha ammorbidito l'intenzione di farli in deficit. «Potremmo anche non sforare il 3% - ha affermato - anche se non lo ritengo un tabù».
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