C’è una norma del governo uscente, ancora da attuare, che potrebbe rivelare le vere intenzioni sul Sud di chi arriverà a Palazzo Chigi. Verrà applicata la famosa clausola sul 34% di investimenti pubblici nel Mezzogiorno?
Quasi impossibile pensare che un esecutivo a trazione leghista possa mettere in atto la più meridionalista delle misure ideate (anche se rimasta sulla carta) negli ultimi anni. Possibile al contrario che il M5S, sospinto oltre il 30% dagli elettori meridionali, decida di cavalcarla. Pochi giorni fa il ministro grillino “in pectore” del Lavoro, Pasquale Tridico, in un programma tv ha parlato espressamente di convergenze con la misura che il Pd aveva anche reinserito nel suo programma elettorale.
Un passo indietro. La legge di conversione del decreto Mezzogiorno di fine 2016 ha sancito l’obbligo per le amministrazioni centrali di riservare al Mezzogiorno un volume complessivo di stanziamenti ordinari in conto capitale proporzionale alla popolazione di riferimento. Quindi, dati Istat alla mano, una quota di almeno il 34%. È stato emanato il primo dei due provvedimenti attuativi, cioè un Dpcm con le modalità per monitorare la spesa. Ma manca all’appello il secondo e determinante atto, ovvero la direttiva del presidente del Consiglio che dovrebbe individuare annualmente i programmi di spesa attraverso cui perseguire l’obiettivo del riequilibrio territoriale.
La Svimez, con uno studio curato dal vicedirettore Giuseppe Provenzano, ha stimato che se fosse esteso a tutti i livelli della Pa (e non solo all’amministrazione centrale in senso stretto) il principio determinerebbe per il Mezzogiorno un aumento annuo degli investimenti pubblici di circa 4,5 miliardi. Più prudentemente la relazione sui Conti pubblici territoriali dell’Agenzia per la coesione territoriale, limitandosi al perimetro fissato dalla norma del Dl Mezzogiorno, calcola un impatto nell’ordine di 1,6 miliardi medi annui.
Nel suo studio, Provenzano ricorda che fino ai documenti di finanza pubblica del 2008 esisteva, benché poi disatteso, un obiettivo di spesa minima al Sud del 30% di risorse ordinarie, cioè quelle diverse dai fondi strutturali e dall’ex Fas (oggi Fondo sviluppo e coesione). L’obbligo fu poi completamente cancellato e la conseguenza è stato un progressivo utilizzo improprio di fondi addizionali, come quelli europei appunto, per scopi ordinari.
Ad oggi, secondo i Conti pubblici territoriali, la quota di risorse ordinarie della Pa centrale destinata al Mezzogiorno è di poco superiore al 28% a fronte del 34,4% di popolazione. Al Centro-Nord siamo al 71,6% contro il 65,6% di popolazione. Sull’applicazione della norma, ad ogni modo, non conteranno solo gli equilibri strettamente politici e la partita tra M5S e Lega in vista del nuovo governo. L’analisi della Svimez sottolinea infatti le notevoli criticità di tipo tecnico. In sintesi: difficoltà per l’individuazione dei programmi ministeriali da ripartire, incertezza del passaggio dalla spesa impegnata ai pagamenti effettivi, limiti delle disposizioni su verifica e monitoraggio, assenza di un elemento di cogenza della misura come potrebbe essere un fondo di perequazione.
In effetti a molti addetti ai lavori, fin dall’inizio, la clausola inserita nel decreto Mezzogiorno era sembrata soprattutto una norma “bandiera” di complicatissima attuazione.
© Riproduzione riservata